Quali sono gli animali che più disprezziamo e ci fanno schifo? Con l’unica eccezione del maiale, che è comunque oggetto di un diffusissimo tabù, e che alla fin fine non fa poi tutto questo schifo, il senso del disgusto e della repellenza si applica a tutti gli animali che non siamo abituati a mangiare, o il cui utilizzo a fini alimentari è ritenuto pericoloso e antigienico. E’ un rapporto biunivoco, non mangiamo mai gli animali “schifosi”, come i ragni, i ratti, i pipistrelli, e finiamo col trovare schifosi gli animali che non mangiamo.
E’ vero anche, tuttavia, che c’è un tabù psicologico anche sugli animali ritenuti troppo “nobili”, uno su tutti l’uomo. Questo perché il gesto del nutrirsi è ambivalente: da un lato si collega alla predazione, e dunque alla più antica dinamica di dominio e sottomissione, ma dall’altro implica anche desiderio, stima e rispetto, esattamente come quell’altro antico gioco di dominio e sottomissione che è il rapporto sessuale. Portiamo dentro di noi solo il meglio, solo il meglio può diventare materiale per i nostri corpi, solo il meglio merita di essere preda, esattamente come nella conquista sessuale. Non certo veleni, germi, viscidume malattia … La dinamica del disgusto e della fobia nei confronti di ciò che portiamo dentro di noi esiste, e normalmente cresce con due fattori: igienizzazione e spiritualismo.
Il primo, l’igienizzazione, è una questione attinente al corpo; la paura è di contaminare il corpo con caratteristiche animali e di vulnerabilità. Se mangio qualcosa di malato, o di “capace di decadenza e malattia”, ciò rende il mio corpo capace anch’esso di decadenza e malattia; e soprattutto non posso mangiare qualcosa che mi ricorda in maniera palese di essere stata viva e sensibile, e dunque di essere ora morta e insensibile. Se mi nutro della morte, morirò; rovesciando l’ottica tradizionale per cui se mangio qualcosa che è stato vivo ne continuo la vita. A noi tanatofobici ossessionati dall’idea di prolungare la vita fino all’immortalità, a noi che viviamo per la perfezione dei corpi tesi e scattanti, l’idea di usare come materiale per “costruirci” delle carcasse macilente fa paura. Anche se tutti un giorno non saremo molto diversi da quelle carcasse.Nasce così un tipo umano “igienico” portato per sua natura ad un’autentica nevrosi paragonabile alla sessuofobia, ovvero un terrore verso ciò che si desidera di più connesso al fatto che con esso si portano anche dei problemi di contaminazione con nature inferiori e “sporche”.
La seconda dinamica, quella spirituale, è una questione di anima, ed è forse più difficile da analizzare, ma senz’altro più semplice da vivere. Se voglio mantenere una strategia di coltura dello spirito ordinata in rapporto alla disciplina del corpo, è chiaro che l’allontanamento da ciò che più ci ricorda le dinamiche fisiologiche, ovvero la nutrizione, è fondamentale. Qui il problema diventa non tanto di quali materiali usare per rendere il corpo immortale, quanto di quali usare per sbarazzarsi del corpo in toto.
Quando a Prometeo fu affidato il compito di spartire i privilegi fra dei ed uomini, egli inganno Zeus spingendolo a scegliere le ossa, mentre per noi umani scelse la carne. Ma le ossa erano l’immortalità, la carne era la parte vivente, e come tale la parte mortale.
Il tipo “igienico”, che si cura del corpo, ha scelto già la carne, che ne sia consapevole o meno, per cui vive nel terrore della morte, e nel terrore del nutrirsi di carne. Ma c’è chi invece, con piena coscienza, ha scelto le ossa. La nutrizione minerale, addirittura pranica, è il suo obbiettivo finale ed ideale, la fotosintesi è la perfezione; o addirittura la mummificazione. Il livello di nevrosi qui è minore perché la scelta è più radicale; se l’igienico adora il feticcio carneo almeno quanto ne è terrorizzato, il tipo “spirituale” ne è fondamentalmente distaccato in quanto rappresenta la corporeità mortale da negare. Non insegue l’illusione di ottenere un corpo immortale attraverso quello che mangia, ma bensì un’anima immortale.
Attenzione, il sostrato è lo stesso in entrambi i casi: un rapporto problematico con le proprie fisicità, mortalità e animalità, viste come caratteristiche non desiderabili. Non voglio considerarmi un animale, dunque non posso usare animali come mattoni del mio corpo. Ma la gestione del problema è molto diversa.
L’igienico ha un percorso tragico e patologico, necessariamente. Come il bigotto che si masturba e poi va a confessarlo al prete, l’igienico può continuare a mangiare carne anche tutti i giorni, ma sente sempre di più la cosa come un peso perché lo obbliga a pensare alla morte. Tanto per cominciare, dunque, riduce nella propria dieta tutto ciò che gli ricorda troppo l’animalità. Le prime vittime sono il sangue e le viscere, di solito, che sono simboli di vita potentissimi e inconfondibili. Ma il muscolo mantiene di norma tutto il suo anonimo appeal… Dunque continua a nutrirsene, ma balbetta giustificazioni, oppure smette, recita un atto di dolore, e poi ricomincia più timido e nascosto di prima; oppure ancora diventa aggressivo, iperreattivo di fronte a chi questioni la legittimità di ciò che sta facendo, perché tutto sommato ha paura del peccato che sta commettendo verso il proprio corpo contaminandolo.
Ma può fare di peggio: all’estremo, può non reggere più il peso di quella consapevolezza, per cui DEVE eliminare la carne, in modo metodico, continuativo, maniacale. Ma ecco che adesso sorge un secondo senso di colpa, quello per non star ottemperando ai desideri del corpo, un senso di inferiorità e debolezza nei confronti delle richieste dello stesso paragonabile a quello dell’impotente. Prima non voleva contaminarsi, ora scopre di desiderarlo, che è nella sua natura contaminarsi! Parallelamente a quel tipo di igienico che esalta l’essere carnivoro per rispondere più ai rimproveri propri che a quelli di altri, adesso esalta il proprio NON mangiar carne in maniera aggressiva e iperreattiva, più per rispondere ai rimproveri propri che a quelli di altri.
Al confronto, il tipo “spirituale” è decisamente più sereno. Quelle pulsioni corporee magari le sente anche di meno in partenza, e comunque la sua vita è un esercizio di autocontrollo e disciplina, le scelte dietetiche vi rientrano. E’ una tattica di sviluppo della noluntas, è come la castità del prete, fortemente finalizzata ad uno scopo più grande. Se il risultato è effettivamente conseguito, se la personalità si riequilibra intorno a questo nucleo, il sintomo evidente sarà l’assenza di ogni forma di aggressività, e un equilibrio esteriore abbastanza stabile. Tuttavia è probabile che il senso del disgusto anticorporeo (anticarneo, antisessuale e in generale antiedonico) riemergerà qui e là, indicativo di una problematica non ancora risolta, ma gestita con buon livello di funzionamento.
Diciamo dunque che in questo senso la scelta dietetica, come tutte le altre scelte riguardanti il corpo, può rappresentare la compensazione più o meno riuscita di una determinata debolezza che non si riesce ad accettare. Ma visto che le debolezze le abbiamo tutti, suppongo che su questo punto si possa privilegiare l’empatia e accettare con una certa serenità tutte le soluzioni.
Basta che funzionino.