di Claudia Boddi
Presa in prestito per far da cornice al film di Luigi Comencini “Delitto d’amore” (1974), la cintura della Milano operaia degli anni Settanta e Ottanta assolve perfettamente al compito che le viene affidato. Protagonisti d’eccezione: Giuliano Gemma e Stefania Sandrelli – di una bravura rara e all’apice del loro splendore – raccontano la storia di due giovani che lavorano in una fabbrica e s’innamorano. Ma i temi sono anche altri.
Delitto d’amore – ivid.it
Lei, Carmela Santoro, siciliana, emigrata al nord con la famiglia in cerca di fortuna, è figlia fedele e devota, pronta a sacrificare anche la sua stessa esistenza per gli ideali ai quali è stata educata: valori religiosi in primis. Lui, Nullo Bronzi, lombardo d.o.c., proveniente da una famiglia operaia da generazioni, è anarchico e libertario. La contrapposizione sociale è netta e ben delineata: la famiglia meridionale impiantata in Lombardia vive in ristrettezze economiche e quotidiane di qualsiasi tipo; gli autoctoni, invece, cercano di sfruttare il periodo di riforme politiche e movimenti sociali per migliorare le proprie condizioni di vita presenti e future. Tra velati pudori e slanci vitali, senso di vergogna e voglia di conoscere, si svolge la loro storia d’amore che, in più di un’occasione, si scontrerà con la realtà che c’è fuori dall’universo degli innamorati ma, pur accusando qualche colpo, ne uscirà con successo.
Di altro segno, invece, il filone narrativo che riguarda il lavoro in fabbrica degli operai che, neanche quarant’anni fa (e, in certi – per fortuna – sparuti casi, ancora oggi) nel nostro paese, vivevano in condizioni al limite della legalità. Nel film, Carmela è addetta a una macchina che produce esalazioni venefiche e tutti i giorni respira il veleno che la ucciderà, senza alcuna protezione o dispositivo di sicurezza. Nullo, alla fine, la vendicherà dando vita a manifestazioni di protesta che coinvolgeranno tutti gli operai di quello e di altri stabilimenti, che poi diventeranno vere e proprie sommosse popolari.
La pellicola non è impeccabile: piccole sbavature si rilevano nel dipanarsi del racconto e nella sua articolazione ma coglie e restituisce perfettamente lo spirito dell’epoca: nella nostalgia dei grigi inverni milanesi e nei giacconi verde militare foderati di pelliccia, c’è tutta la poesia degli anni Settanta. La storia è imprevedibile e accattivante, tant’è che fino alla fine, lo spettatore mantiene viva una latente speranza che Carmela si alzi dal letto in cui è costretta dalla malattia e che il matrimonio d’amore dei due protagonisti si celebri come Dio comanda. Ma il finale che Comencini ci ha riservato è, al contempo, più delicato e più potente di qualsiasi altro e sperato happy ending. Pregevole anche la scelta di dialoghi brevi e dal contenuto sobrio che rievoca note di registi francesi, soliti lasciare più spazio alla narrazione attraverso le immagini piuttosto che a quella urlata o eccessivamente descrittiva delle parole.
Compreso nella selezione ufficiale di Cannes del 1974, fece parte dei film in concorso e fu ben accolto dalle giurie che ne colsero gli aspetti sociali, relativi alla denuncia delle pratiche di lavoro malsane adottate da alcuni stabilmenti italiani in quegli anni, e l’elevato valore drammatico, incarnato soprattutto da due attori della qualità artistica di Giuliano Gemma e Stefania Sandrelli.