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Dell’ereditarietà: sorrisi, musica e altre sciocchezze

Creato il 04 dicembre 2013 da Scribacchina

Sulla mia scrivania di casa c’è la fotografia di una bimba di quattro anni.
Obiettivamente è una foto bella, ben fatta.
E’ chiusa in una cornice che di argento ha soltanto il colore: credo sia di latta o giù di lì. Una cosetta economica che sa tanto di fine anni ’70.

La fotografia è alla mia destra, vicino al mouse, in posizione strategica: quando sposto gli occhi dal monitor è giocoforza incrociare lo sguardo ridente di quella bimba.
Mi piace osservare il suo musetto, ha un non so che di rasserenante.

Quella bimba sono io; la foto risale ai tempi dell’asilo, quando era usanza far venire il fotografo di paese per immortalare tutti i bimbi, uno alla volta, e rivendere il pacchetto foto+cornice ai genitori. Questa fotografia mi accompagna da sempre, ma ha iniziato ad avere valore solo col passare del tempo. Forse perché è sempre più rappresentativa di quello che ero, di quello che sono e di quello che ho ereditato.

Foto semplicissima: sullo sfondo due tende colorate, una bianca e una verde.
Poi ci sono io, ritratta a mezzo busto, col grembiulino bianco e un enorme fiocco rosso al collo.
[Bianco, verde e rosso: sembra quasi di vedere la rappresentazione della bandiera italiana in un tableau vivant...]
Da sotto il grembiule occhieggia il collo alto di un maglioncino di lana blu, il mio preferito. Coloristicamente è un pugno nell’occhio, ma abbinato al sorriso furbetto della bimba diventa un simpatico scherzo.
I capelli castani tagliati corti, la mollettina sistemata dalle suore subito prima dello scatto.
Non si vedono le mani; in compenso si vede quello che mi avevano messo in grembo: un cagnolino a molla e un cerchio multicolor fatto di pezzi di plastica componibili, due accessori che denunciano l’età della foto.

Ma c’è un aspetto di questa immagine che la rende straordinaria: è l’incredibile somiglianza del sorriso e dello sguardo di quella bimba con lo sguardo e il sorriso di mia mamma, due cose che sembra mi siano rimaste stampate in volto anche una volta cresciuta. Tanto che (ne avevo accennato tempo fa) tuttora mi si fa notare come io sia la copia non esatta, ma molto somigliante, di mia mamma alla mia età. Trovo che questa sia una cosa bellissima.

Poi mi fermo e penso che forse, oltre al viso, l’eredità è più ricca: la gran quantità di fantasia; la passione per la cannella (sì, anche quella arriva da mia mamma); certi aspetti del carattere; l’essere tendenzialmente e orgogliosamente autonoma; la scorza dura costruita tutto intorno all’anima.

E poi c’è la musica, incisa a fuoco nel dna della sua famiglia: dagli zii appassionati di liscio a quelli che suonavano il clarinetto e la tromba nella banda, passando per i cugini concertisti classici. E quell’altro zio, l’insegnante di musica, quello che aveva realizzato il sogno di entrare in Conservatorio (immagino con quali difficoltà per una famiglia di contadini del nord-est negli anni Cinquanta).

Qui si incrociano i miei ricordi d’infanzia: il cascinale dei nonni perso nelle campagne venete, con gli strumenti a fiato abbandonati sul tavolo della cucina. Luccicanti come l’oro, attraenti come un frutto proibito.
Fuori, a sinistra, la stradina piena di sterpaglie che portava al Brenta; a destra, l’altra stradina, quella che portava al paese.
La ghiaia bianca che scricchiolava sotto i piedi.

Il silenzio della campagna, che non era propriamente assenza di suoni.
Erano versi di animali, o vento tra le foglie degli alberi.
Era la voce del Brenta, lontana.
No, vicina.
Era il morbido dialetto veneto, unica lingua parlata in quell’angolo di mondo.

E il profumo che si respirava in casa dei nonni, quell’odore particolare che ricordo perfettamente ancora oggi – ricordare un profumo non è così facile…

***

Oggi nella bimba della fotografia vedo il diritto di sorridere.
Di avere sane passioni, di sentire il cuore che batte forte.
Il diritto di vivere, sacrosanto e innegabile.

Sento il dovere di proteggere questa fotografia.


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