Alberto Laiseca, Avventure di un romanziere atonale, traduzione e cura di Loris Tassi, Salerno, Edizioni Arcoiris, 2013, pp. 116, euro 10,00
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di Primo De Vecchis
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Le Avventure di un romanziere atonale di Alberto Laiseca (nato a Rosario, Argentina, classe 1951) non è un libro facile da leggere. Consta di due racconti lunghi: il primo dà il titolo all’opera, mentre il secondo prende il nome di L’epopea del Re Teobaldo. Per ragioni che risulteranno chiare in seguito, mi limiterò a parlare del primo racconto. La trama (se esiste) è apparentemente semplice. C’era una volta un romanziere fallito che trascorre la miglior parte della sua esistenza insulsa in una topaia a vergare il suo romanzo sperimentale, ovvero atonale, che ha raggiunto ormai quota oltre duemila pagine dopo almeno dieci anni di lavoro.
L’antieroe, oltre a essere scrittore (che non è una professione, ma in tal caso una condanna, una tortura, e la più atroce) è anche uomo delle pulizie e affitta una camera singola (un ex bagno) di forma quasi sferica, infestata da cimici e topi. Lo scrittore fallito è perseguitato dall’invadenza materna della vecchia proprietaria della pensione, una certa Doña Clota, che ha due caratteristiche singolari: un’alta crocchia di capelli (poi ne parleremo) e il vizio del gioco (perlopiù schedine del totocalcio). Ci attenderemmo che lo scrittore «rospinsetto» (p. 13) tiri fuori il suo coraggio e squarci con un colpo d’ascia il cranio dell’affittacamere (ma quello è Delitto e castigo, scusate), invece il romanziere atonale non è solo un fallito (come uomo e scrittore) ma anche un masochista. A tirarlo fuori dal pozzo dell’oblio sarà l’amico scrittore Coco Pico Della Mirandola, che lo presenterà all’editore sadico e dispotico Juan Bautista Ferochi. Tuttavia nel frattempo il Ferochi, dopo aver torturato generazioni di aspiranti scrittori (il libro esce nel 1982, un anno prima della fine della dittatura militare), afflitto dalla noia, si è convertito al masochismo e decide quindi di pubblicare il romanzo atonale, convinto che sarà un fiasco e che manderà a rotoli la sua redditizia attività. Mi fermo qui con il riassunto della trama. Potrei solo fare cenno a un altro ghiotto personaggio, Estela Zullini, donna di ferro, sadica e castratrice (nel senso letterale del termine), che sposerà in seguito il romanziere atonale, in una fase della sua vita piena di sorprese. Qualcuno dirà: ma che storia è? Come può risultare interessante una fabula simile? Il centro ineffabile del discorso è un altro: Alberto Laiseca sceglie di narrare questa storia insulsa per mostrare sprazzi del suo mondo allucinato e intriso di un umorismo nero e grottesco. È come entrare dall’uscita di sicurezza mentre scatta l’allarme. Un fatto è certo: Laiseca diverte, ha un ritmo da cartone animato sadomasochista (stile Grattachecca & Fichetto dei Simpson), la sua anima ci appare infinitamente vecchia e al tempo stesso infantile. Il suo riso isterico sembra convivere a tratti con un singhiozzo strozzato. Inoltre il suo microcosmo fetido sembra essere governato da leggi peculiari e costanti. Ciò si avverte sin dalla prima pagina, dove viene descritta l’assurda stanzetta dello scrittore, quasi sferica, curva, simile a una «fossa», un «abisso», con una cupola kitsch, il tutto all’insegna dello strano e del grottesco. Senza parlare di Doña Clota e della sua crocchia «vudù» (p. 13), vera protagonista del racconto, crocchia magica, ammaliatrice e terrificante. Laiseca è andato a scuola dai migliori scrittori neri e fantastici: il Divino Edgar (Allan Poe), l’anoressico Kafka, l’intossicante William S. Burroughs (solo per citarne alcuni). Ma il suo mondo è totalmente diverso dagli altri, peculiare, intriso di geometrie non euclidee, quantistico, contaminato da un enciclopedismo folle, turbato da una distorsione sensoriale simile a quella dei drogati e degli schizofrenici. Lo stile allucinato di Laiseca è una fantasmagoria che descrive con minuzia una realtà esplosa come una supernova. E sospettiamo che vi sia qualcosa di intimo e misterioso in questa nevrosi sadomasochista, che dobbiamo sforzarci di decifrare, come lo psichiatra tenta di fare con il delirio di un pazzo. Non voglio dire che Laiseca sia pazzo, dico solo che la sua prosa ornata si avvicina tremendamente alla furia dell’artista invasato, direi quasi posseduto da legioni di spiriti riottosi. Non leggete Laiseca se vi accontentate del realismo ingenuo o dei libri forti e socialmente impegnati. Vi sconsiglio di leggere Laiseca se non volete trascorrere un’ora di pura sgradevolezza, benché divertente. Scrivo queste righe per dirvi, lasciate perdere, prendete in mano il solito romanzetto costruito con le trite regole insegnate dalle scuole di scrittura (non) creativa, lasciate pure che a divorare questo pasto nudo e allucinogeno siano quei lupi solitari di Ricardo Piglia, César Aira, Rodolfo Fogwill e altri mostri sacri della letteratura argentina contemporanea, laggiù, in culo al mondo.
p.s.: Un ultimo appunto, più sociologico. Il libro esce in Argentina nel 1982, un anno prima della fine della dittatura militare (iniziata nel ’76); il romanzo fiume di Laiseca, considerato all’unanimità il suo capolavoro, Los Sorias (mai tradotto in italiano) è stato scritto nell’arco di dieci anni, tra il 1972 e il 1982 circa. Sono gli anni più neri della storia politica argentina, perfettamente descritti da Andrew Graham-Yool in Memoria del miedo, (Barcelona, Libros del Asteroide, 2006): è la realtà politica argentina, con la sua lotta feroce per il Potere, a essere “delirante”. Scrittori come Laiseca, senza alludere in modo chiaro alla realtà storica coeva, deformando la vita percepita con una lente allucinata, risultano essere molto più oggettivi di tanti autori piani e cristallini. È la realtà esterna ad essere abitata da mostri e infestata da demoni: l’artista è solo uno specchio con una vista più acuta.
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