di Michele Marsonet. Il termine “liberaldemocrazia” e l’aggettivo “liberaldemocratico” fanno parte da tempo del linguaggio comune, almeno in Occidente. Grazie all’uso così frequente si dà per scontato un fatto che invece non lo è, vale a dire la sostanziale equivalenza di “liberalismo” e “democrazia”. Non parlo ovviamente degli studiosi di storia delle dottrine politiche e dei filosofi della politica, i quali sanno benissimo che le due parole hanno origini e significati diversi. Tuttavia i non addetti ai lavori, e quindi la stragrande maggioranza delle persone, le utilizzano come se fossero intercambiabili senza riflettere.
Sul piano pratico la questione non appare poi tanto drammatica. A livello teorico, invece, si creano equivoci di non poco conto, soprattutto in momenti di emergenza quale quello che stiamo vivendo a causa della grave crisi economica che tocca gran parte dei Paesi industrializzati.
Semplificando al massimo, il liberalismo si basa sul principio dei diritti dell’individuo, la democrazia sul principio della sovranità popolare. Quando li si combina mediante l’espressione “liberal-democrazia”, si sottintende – quasi inconsciamente – che il riconoscimento della sovranità del popolo non possa essere scissa dalla intangibilità dei diritti individuali, quali ad esempio la libertà di pensiero, di credo religioso, di mercato, di stampa, etc.
Il problema è che l’uso del termine “democrazia” è antichissimo, mentre l’utilizzazione di “liberalismo” è assai più recente. La sovranità popolare – pur non includendo “tutti” – veniva già esercitata in alcune regioni della Grecia classica, con Atene in posizione di leadership. Il liberalismo nasce invece in epoca moderna per porre limiti al potere dello Stato e garantire, per l’appunto, i dianzi citati diritti degli individui. John Locke, David Hume e Adam Smith ne sono i precursori.
Non è detto che la democrazia sia tenuta a rispettare i diritti individuali, come la storia dimostra. E sicuramente alla nozione di “mercato” il democratico attribuisce un’importanza minore (e in qualche caso nulla) rispetto al liberale. La dialettica “eguaglianza-libertà” riflette, per quanto parzialmente, la differenza. Da un lato si autodefinivano democratici anche i regimi comunisti dell’Europa orientale nati sotto l’egida dell’URSS (democrazie popolari, o democrazie “reali” usando la terminologia propagandistica dell’epoca). Dall’altro pensatori liberali come Isaiah Berlin e Karl Popper sono disposti in una certa misura a sacfricare l’eguaglianza qualora essa andasse a scapito della libertà.
Quella appena abbozzata non è, come potrebbe sembrare di primo acchito, una mera esercitazione accademica. Non lo è poiché l’avvento del governo tecnico di Mario Monti ha scatenato una serie di polemiche – del resto prevedibili – sulla sua reale rappresentatività. Si tratta di un esecutivo che ha sì ottenuto la fiducia del Parlamento, ma non quella degli elettori. E’ nato per volontà diretta del Presidente Napolitano il quale, di fronte all’incapacità del sistema politico tradizionale di fronteggiare una crisi che minacciava addirittura di causare il default del Paese, ha ritenuto opportuno dar vita a un governo non composto da esponenti di partito.
Mette conto notare che gli stessi partiti politici – non tutti, ma gran parte – hanno per così dire “abbozzato” votando, almeno finora, prima la fiducia e poi vari provvedimenti presentati dal governo tecnico. Ciò significa che esiste la consapevolezza della gravità di una situazione non fronteggiabile con strumenti classici. Permane in molti il sospetto che una soluzione di emergenza e “a termine” possa trasformarsi in quadro permanente ma, conoscendo la storia di Monti e dei suoi ministri, una simile ipotesi appare poco fondata. E si noti che la soluzione alternativa, cioè le elezioni immediate, appariva a molti degli stessi leaders politici non praticabile vista l’estrema debolezza del Paese e le pressioni speculative cui era – e ancora è – sottoposto.
Da un punto di vista strettamente democratico c’è stato senza dubbio “un salto” che ha trascurato la sovranità popolare. Ma quale la causa? La democrazia ha di certo bisogno di un popolo che si riconosca in un Parlamento da esso eletto. Si ha però la sensazione che il riconoscimento del vecchio Parlamento non ci fosse più, e che il nuovo scaturito da eventuali elezioni immediate non sarebbe stato per forza di cose molto diverso dal primo. Il tutto, giova ripeterlo, condito da un’emergenza così grave da mettere in dubbio la nostra permanenza in Europa.
Allo studioso spetta analizzare sul piano teorico l’applicazione dei principi che gli sono cari. Al politico si chiede anche una certa dose di fantasia e di spregiudicatezza quando si trova ad affrontare situazioni non contemplate dai manuali. Nonostante il fuoco di fila a opera di commentatori di varie e spesso opposte tendenze, è difficile capire quali alternative migliori fossero disponibili in un momento come questo.
Featured image, Aleksandr Ivanovič Herzen, filosofo e scrittore russo che si oppose all’autoritarismo zarista.
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