Magazine Cultura

Delusione che abbatte il giudizio

Creato il 21 maggio 2022 da Annalife @Annalisa
Delusione abbatte giudizioSenza mordente

Devo premettere che mi irritano i libri scritti da terroristi, perché, pur sapendo di sbagliare, ritengo che non vada loro concessa parola. Sbaglio, lo so, amen.
Così, visto che non avevo idea di chi fosse questo autore, ho cominciato il libro per l’incontro con il Circolo in ritardo (all’ultimo momento) e con un certo fastidio. Il fastidio si è in parte dissolto quando ho capito che non di una testimonianza diretta si trattava ma di un romanzo che, sotto le spoglie della crescita personale di uno “studentame” degli anni di piombo, dovrebbe ripercorrere – dice il sottotitolo – il romanzo delle Brigate Rosse.

“Dovrebbe” perché in realtà il fulcro di tutta la vicenda è lo studente Alberto Boscolo, quasi vent’anni, milanese di buona famiglia, innamorato di Anita e partecipante al Circolo Politico Metropolitano, serbatoio delle future Brigate. Nei primi capitoli, assistiamo a tutte le incertezze, le discussioni, i tentativi di soluzione che probabilmente erano frequenti tra i giovani studenti e tra gli operai del tempo, in lotta contro le strutture patriarcali e capitalistiche dello Stato.
La storia si evolve poi seguendo i primi passi di questi movimenti, fino alla trasformazione in Brigate, con capitoletti dedicati alla scelta del nome, alla struttura del simbolo, questioni per i fondatori tanto importanti quanto le finalità dell’organizzazione, che ha come imperativo anche quello di farsi immediatamente riconoscere dalle persone, di parlare chiaro, di esprimere in modo netto e inequivocabile i propri scopi.

Il tutto visto attraverso gli occhi e filtrato dai pensieri di Alberto, che tuttavia si trasforma a volte in narratore onnisciente (come quando racconta che nella Sit-Siemens “non si parlava d’altro: in catena di montaggio, nei bagni, in mensa e persino nei bar…” e io mi sono immaginata Alberto che si intrufola nella Sit-Siemens a spiare nei gabinetti) e che spiega, spiega, spiega, spiega…

Questo è il primo limite del racconto: un protagonista che parla ininterrottamente di sé, senza nessun fremito di sentimento, ma un personaggio che deve anche inserire tutte le notizie relative a quegli anni (nomi, date, avvenimenti), così che alla fine l’impressione che si ha di questo libro è quello di un bigino nobilitato. Apprezzo il tentativo di ridurre a materia narrativa quello che è pura cronaca; ammetto anche che le notizie sono state inserite in un contesto ben costruito, ma talmente piatto da risultare senza spessore. Se non fosse una parola orribile, direi un contesto wikipediano. A volte, tra l’altro, forzatamente sbrigativo, perché se scrivi un libro come questo con l’ambizione di spiegare i primi passi della Brigate Rosse attraverso ciò che vede uno studente, e già lo fai con tono un po’ cattedratico, ti può anche capitare di dover tirar via velocemente alcuni particolari per non ridurti a una tesi di laurea sull’argomento.
Esempio? Esempio: dopo il fallito golpe Borghese, il protagonista spiega che “il fallito golpe serviva per mandare un messaggio a qualcuno nel governo e nella DC, divisa al suo interno da una consolidata quanto feroce lotta di correnti. Il messaggio era sicuramente arrivato”. Punto. Di che messaggio si trattasse, non si dice. Il che è come dire che se si ritengono inutili certi particolari (tanto lo sappiamo), più di metà del libro è inutile.

Anche i tormenti del giovane Alberto (gli amori che finiscono per motivi politici, la lontananza dalla famiglia, le scelte dirompenti fatte) sono – di nuovo – spiegati, spiegati, raccontati con un tono monocorde che rende tutto senza tormento, senza scavo interiore (del tipo: ah, come soffrivo, soffrivo molto, eh, sì, proprio tanto, ero tanto triste, ero solo, povero me; seguiti da: ho fatto la scelta giusta, o forse no?, ma sì che ho fatto la scelta giusta, gli altri non mi capiscono, ma io sono felice, ho fatto la scelta giusta, o forse no, chissà chi lo sa).

Il secondo limite riguarda il tentativo di fare materia personale di fatti enormi, politici, sociali, così che il protagonista incontra la Mara, Renato, Mario, Valerio, Alberto, li incontra tutti e li nomina così, senza cognomi, tanto che la precisione del racconto politico in certi punti (il pomeriggio del 15 marzo, vicino al traliccio numero 71 dell’Aem di Segrate, periferia est di Milano, ecc.; ) fa da contraltare alla frettolosità (voluta) con cui vengono presentati i protagonisti degli anni di piombo. Il che ci starebbe anche, visto che sono tutti suoi amici, e l’autore vuole appunto darci l’impressione di familiarità estrema tra il suo protagonista e gli altri brigatisti, ma il tono del racconto (che spiega, spiega, spiega) è così una continua altalena tra precisazioni minuziose e frasi vaghe come “il primo a parlare fu Corrado”, “A organizzare tutto era stato Alberto” (Corrado chi? Alberto chi? E vai di ricerche Internet per scoprire che uno è Corrado Simioni, l’altro è Franceschini, la Mara è Margherita Cagol, Renato è Curcio e via così).

Non sto qui a dilungarmi sul fatto che i brigatisti di Alberto sono duri ma sensibili, si commuovono quando muore Feltrinelli, mentre progettano di gambizzare qualcuno, e non sia mai che abbiano ucciso loro Calabresi, perché loro queste cose non le fanno; e non mi dilungo nemmeno sul fatto che non esiste dubbio alcuno che i cattivi, i colpevoli, siano tutti gli altri. Insomma, una posizione manichea (e ci sta per quegli anni) e totalmente assolutoria nei confronti dei protagonisti, che si potrebbe perdonare ascrivendola al ragazzo che era Alberto all’inizio dell’avventura, non fosse che, per altri aspetti, Alberto Boscolo giudica, tira le somme, ragiona col senno di poi.

Altra cosa non proprio riuscita è il tono pedante che il narratore mantiene durante tutto il libro con questo risultato: quando parla di sé è noioso, rigido, incapace di suscitare un sentimento di vicinanza, e non parliamo di quando tratta di sentimenti (“Bianca… mi carezzava la testa con un gesto apparentemente materno ma che mi fece venire prima un brivido e poi un’erezione”, ma tranquilli che poi tanto si mette a mangiare il risotto); quando parla del momento storico usa un linguaggio eccessivamente cronachistico, politichese, tentando di calarci anche linguisticamente in quegli anni ma con un risultato più adatto a un saggio che a un romanzo come dovrebbe essere questo. Forse le cose si movimentano un po’ (e migliorano) nello scorcio finale, con una scelta tanto necessaria quanto frettolosa, e con l’angoscia di quello che potrebbe succedere: si sopporta un po’ meglio, qui, il concreto voltafaccia del protagonista, che tuttavia, teoricamente, qui e là, continua a sostenere la giustezza di quello che è stato (non abbastanza, comunque, da farlo rimanere sulla strada intrapresa tre anni prima).

Rimane poi la questione della lingua: leggo su e-reader, e mi riservo di controllare su carta se molte delle sviste sono dovute alla trasposizione elettronica (mah…), ma ci sono incertezze fastidiose: davvero questo è un libro candidato allo Strega? La buona scrittura non è più un requisito?

A quella promessa ci credevamo”, con la ripetizione del complemento (come dire “a me mi”, una volta era errore, e oggi suona ancora stridente); “Il mio volto non gli diceva nulla a quegli impiccioni”, con un “gli” al posto di “loro” (ma vabbè, ormai accettato), e con – di nuovo – la ripetizione del complemento, il che potrebbe andare (male, ma andare) in un discorso volutamente di registro basso, ma non in romanzo dove anche i racconti personali sono infarciti da un certo politichese; gerundi come se piovesse; virgole un po’ trascurate e punti e virgola non parliamone: “Mio padre pensa alle conseguenze Ivan, le sue parole mi rimbombano nella testa” (eh?);
con la nebbia in cui arrivava in anticipo a offuscare…” (ditemi che nella versione su carta almeno questo è sparito); “Sull’anarchico gravava… il fardello della colpa per la strage e che quel poveretto… aveva agito coerentemente” (eh?); “Facciamo la stella è deciso, disse Renato” (una virgola no?); “Quarto Oggiaro, era piena di appartamenti” (argh! Una virgola in meno qui, no?); “La sua famiglia commerciava legname da sempre, dalla quale manteneva contatti con i servizi segreti” (‘dalla quale’ cosa?); “una cosa per noi impensabile che alla fine restavamo un gruppo di giovani…” (rimescolare un po’ la frase per darle un senso compiuto?); “Resistemmo parecchi giorni e alla fine dei quali…” (e? Eh?).
Anche ammesso che alcune (alcune) di queste scelte siano delle sviste da seconda terza, ventesima stesura, non usa più rileggere e correggere? Gli editor dove sono?

Alla fine, dunque, romanzo debolissimo, né bastano a nobilitarlo le passeggiate milanesi con l’elenco delle pubblicità alcoliche del tempo (Cinzano, Vov, China Martini, Fernet Branca, Vermouth Bosca), le camminate dalle periferie ai quartieri del Giambellino e di Lorenteggio, da Piazza Duomo a via Tadino fino a Piazza Fontana. Un affresco della Milano del tempo, sì, ma anche questa volta con un risultato artificioso.

(io mi scuso con tutti quelli che lo trovano un capolavoro necessario a comprendere quegli anni, ma, nella stessa ottica di romanzo, ho letto di meglio)


Alessandro Bertante
Mordi e fuggi
Baldini&Castoldi, 2022
208 pp, 17 euro


Ritornare alla prima pagina di Logo Paperblog

Magazines