“Demagogia. In origine, genericamente, arte di guidare il popolo; in seguito (già presso gli antichi Greci), pratica politica tendente a ottenere il consenso delle masse lusingando le loro aspirazioni, specialmente economiche, con promesse difficilmente realizzabili. Nella storia del pensiero politico il termine risale alla tipologia aristotelica delle forme di governo, nella quale essa rappresenta un aspetto degenerativo o corrotto della politèia, per cui si instaura un governo dispotico delle classi inferiori dominato dai demagoghi, che sono definiti da Aristotele adulatori del popolo“. (cit. Enciclopedia Treccani).
I lettori della stessa generazione dello scrivente si sono formati, politicamente parlando, all’ombra del ventennio berlusconiano. Potranno costoro condividere con il sottoscritto che, quando il Cavaliere, nell’ormai lontano ’94, fece la sua discesa in campo con una strategia politica, organizzativa e pubblicitaria completamente rivoluzionaria rispetto al passato, non venne tacciato, se non da pochi, sol ora considerati illuminati lungimiranti, di demagogia, ma per più anni elogiato, riverito e osannato quasi fosse il Salvatore o l’uomo della Provvidenza. In effetti bisogna riconoscere come egli realmente seppe concentrare su di sè ogni attenzione, spazzare via un’intera classe politica per sostituirla con fidati (col senno di poi, mica tanto) yesman, individuare dei capri espiatori capaci di far distogliere il nostro sguardo dai veri problemi che mano a mano affliggevano il Belpaese, intuire quanto l’Italia alla fine sia credulona e preferisca affidarsi all’uomo del “ghè pensi mi” piuttosto che provare perlomeno a cavarsela con l’apporto di tutti.
Ma se pensavamo che il vortice demagogico non potesse trovare lidi più ameni di quelli di Arcore, non possiamo che ammettere con deludente amarezza quanto ci stavamo sbagliando.
Berlusconi più che un demagogo è infatti un populista. Lo si evince se si considerano i modi di esaltazione delle istanze del popolo rispetto ai contenuti che, almeno nella prima fase del ventennio, erano autenticamente liberali e innovatori. Diciamo che il vortice di cui si accennava prima ha poi trovato in lui facile vittima.
Oggi invece siamo assolutamente e perversamente circondati da un odore di demagogia che ci ha condotti ad una pericolosa deriva, dalla quale forse non potremo uscire senza traumi. Il primo ministro Matteo Renzi, al pari di una bella donna o di un buon profumo, ci ha inebriati, ammaliati e solo ora alcuni di noi stanno iniziando a rendersi conto dell’incantesimo. Promessa dopo promessa, annuncio dopo annuncio, ottanta euro dopo ottanta euro, ha fatto della sua oratoria (unica rara qualità da riconoscergli) uno strumento di raggiro ed inganno. Persino la grave crisi economica che continua a mordere è una delle migliori alleate del nostro Matteo, che bene sa approfittarsi della pancia delle persone. Stiamo assistendo inerti alla manipolazione della realtà, dove riforme avviate a malapena e con stento, senza peraltro alcuna reale portata innovativa, vengono spacciate per fatte e come se fossero oro colato, dove la sinistra fa la destra e la destra fa la sinistra, dove non c’è più niente di assoluto ma tutto è miseramente relativo… insomma un Paese in preda alla malattia del “fare”, che però chiude gli occhi e si affida ad un venditore di sogni compiaciuto di se stesso.
I suoi avversari poi, anche se demagogicamente sarebbe più giusto definirli nemici, e i suoi alleati di governo non scherzano di certo. Grillo, fine interprete degli istinti del popolo, è ormai in preda ad una degenerante megalomania che a tratti gli fa perdere il contatto con la realtà; Alfano, in cerca di costante visibilità perché soggiogato dal suo peggior nemico, Matteo, con cui però demagogicamente è alleato, tenta di intestarsi la responsabilità di qualche riforma e questione di principio; Salvini, il Matteo del centrodestra, si approfitta dell’ignoranza e della paura delle persone, cavalcando i problemi reali del Paese, al fine di fare incetta di voti destrorsi spersi in una prateria desolata, sopperendo alla sua debole oratoria con la parte del pragmatico antieroe.
La democrazia è la forma di governo più partecipativa che ci sia: consente grandi vantaggi, ma richiede improbi gravami. Per esserne all’altezza, impariamo a non fidarci per una volta del Matteo di turno e a vigilare sulla deriva demagogica di cui sopra.