Sono stato venerdì al seminario Transitioning Dictatorship to Democracy (sfortunatamente non nel palazzo imperiale di Dolmabahçe, ma in un centro congressi lì vicino: cambiamento dell’ultim’ora per motivi di spazio). presenti vari esponenti politici e attivisti soprattutto di Tunisia ed Egitto, oltre a intellettuali e accademici. I discorsi – Rashid al-Ghannushi del partito islamista Nahdah e due egiziani – sono stati particolarmente fumosi: ad eccezione di quello di Ibrahim Kalın, direttore dell’Ufficio per la diplomazia pubblica e principale consigliere di Erdoğan, che ha organizzato l’evento insieme al professor John Esposito del Center for Muslim-Christian Understanding dell’università americana di Georgetown.
Kalın ha sostenuto che, affinché la transizione alla democrazia si compia, bisogna lavorare su tre fronti e a un ritmo sostenuto: un processo di completa democratizzazione, nel senso di nuove regole, di iniziative di riconciliazione nazionale, di inclusione di tutte le forze politiche, di confronto sui programmi (gli slogan non bastano); una trasformazione economica, così da combattere la povertà e da ricostruire la classe media andata perduta; una nuova politica estera, che punti decisamente all’integrazione regionale. Per inciso, si tratta dei tre fronti che hanno caratterizzato la transizione – ancora incompleta, ma sicuramente virtuosa e da imitare – dell’Akp in Turchia. Il cammino è lungo, l’orizzonte per esprimere giudizi deve essere necessariamente di 3-5 o addirittura 5-10 anni: ma il consigliere del premier turco si è comunque dichiarato fiducioso per l’avvenire, sicuramente più roseo di quello – di depresione e repressione – che avrebbero invece continuato ad assicurare le dittature sostenute dall’Occidente.