«Il migliore mai scritto in Italia su questo tema»: così l’ha definito Goffredo Fofi sul settimanale Internazionale, con una frase che racchiude l’essenza di questo straordinario lavoro: un testo che, come riporta la quarta di copertina, è «un libro d'esordio senza paragoni, essenziale e folgorante, radicato nella vita».
Sandro Bonvissuto ha 42 anni e vive a Roma. È laureato in filosofia e lavora – da anni – nella trattoria “La Sagra del Vino”. Con Dentro (Einaudi, 2012), approda a pieno titolo nel panorama letterario italiano.
Anche se aveva già pubblicato alcuni racconti (che per varie traversie non hanno avuto distribuzione), Dentro è la sua prima prova letteraria più compiuta. Non è etichettabile come un romanzo, anche se da molti viene considerato tale: in realtà, mancano le basi strutturali; non c’è l’intreccio e la trama è priva di ogni escamotage narrativo. Ci sono, tuttavia, un consolidato ricorrere agli aforismi e una tecnica di scrittura asciutta e veloce che fa pensare al racconto. E infatti, il volume si compone di tre brevi esposizioni: excursus di vita vissuta che ripercorrono l’esistenza di Sandro in tre situazioni completamente differenti. È un percorso, in altre parole: un cammino che parte dalla sua esperienza in carcere e si estende a ritroso, attraverso una storia d’amicizia e una vicenda d’infanzia.
Il primo racconto – il migliore dei tre, a mio parere – è quello a cui si riferisce Fofi con la frase sopra citata. S’intitola Il giardino delle arance amare e narra l’esperienza del protagonista in un istituto di pena. Bonvissuto ripercorre, in prima persona, le sensazioni provate durante quel periodo; rivede le persone che gli sono state a fianco, riassaggia i sapori acri della detenzione, ascolta i rumori sordi e percepisce gli odori nauseabondi delle notti passate senza chiudere occhio. Rivive, mediante le parole, un luogo dove il tempo sembra essersi fermato e dove ogni minima azione e ogni piccola cosa assumono un significato diverso. Come i muri, ad esempio, che in carcere sono «la forma architettonica del male […] il più spaventoso strumento di violenza esistente» (Il muro – si legge – «non si è mai evoluto, perché è nato già perfetto […] non è fatto per agire sul tuo corpo; se non lo tocchi tu, lui non ti tocca. Non è una cosa che fa male, è un'idea che fa male»), o come le impronte digitali, le sue, che, dopo essere state raccolte dagli agenti, sembrano assumere una vita propria: «Era come se mi avessero tolto qualcosa di mio per sempre – scrive Bonvissuto – come se quelle impronte me le stessero rubando. Per un attimo provai il forte desiderio di riprendermele. Ma mi guardavano tutti. Avrei dovuto quindi lasciarle lì, come un’altra cosa in più che si aggiungeva a tutte quelle che avevo già perso o dimenticato in qualche posto».
La seconda parte racconta l’amicizia tra due adolescenti che il caso fa sedere allo stesso banco il primo giorno di scuola, fino a farli diventare, col passare dei giorni, una cosa sola, quasi un concetto, una sensazione che l’autore non aveva mai provato prima: diventano un “noi”. Il titolo è Il mio compagno di banco.
Il terzo e ultimo racconto è quello che retrocede fino all’infanzia di Bonvissuto e giunge a un momento preciso: all’attimo in cui impara ad andare in bicicletta, al momento in cui il padre gl’insegna a pedalare e a restare in equilibrio. Non a caso, s’intitola Il giorno in cui mio padre mi ha insegnato ad andare in bicicletta.
Dentro, in sostanza, è la storia di un uomo raccontata attraverso le descrizioni di «tre momenti capitali», come recita la quarta di copertina. È un libro che viaggia attraverso le sensazioni di tutti e che, grazie all’uso di espressioni figurate, mette in mostra il vero pensiero di molti.
L’autore descrive gli eventi con un linguaggio schietto e diretto, quasi crudo, che colpisce subito il lettore al cuore e lo trascina in un vortice di curiosità che difficilmente gli farà staccare gli occhi dalle pagine.
In tutt’e tre i racconti c’è un elemento che riappare sempre e che lascia anche un po’ d’amaro: il tempo, l’inesorabile scorrere dei giorni. In particolare, nella prima parte vi è la presa di coscienza di una convinzione che, nella sua banalità, racchiude qualcosa di straordinariamente vero e profondo: «Le ore erano un’unità di misura che non aveva senso lì. Come anche i minuti, le settimane, i mesi, o gli anni. Lì dentro contavano solo i giorni. Dovrebbe essere così ovunque pensai. L’unica misura valida del tempo dovrebbero essere i giorni, appunto. Tutti gli altri parametri dovrebbero essere considerati quelli che sono: convenzioni sociali. Invenzioni. Gli esiti deliranti del perenne tentativo dell’uomo di dominare in qualche modo la più grande ossessione: il tempo. I giorni invece esistono davvero. Dovrebbero essere l’unico modo giusto di misurare la vita».
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