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Alina aveva gli occhi più piccoli ed espressivi che io avessi mai visto. Il colore era lo stesso del muschio, la mutevolezza era la medesima di una corrente oceanica, l'intensità era quella di un milione di stelle. Bucavano come spilli, a volte. Quella tristezza che usciva invisibile da loro e ti si aggrappava addosso, trasmetteva immediatamente l'idea di una vita non facile. Quando rideva, col cuore e con l'animo, i suoi occhi scomparivano quasi, ingoiati dalla gioia. Di loro rimaneva un luccichio folgorante che dava l'esatta misura di quanta fosse la sua felicità in quel momento.Quando diventava malinconica, la percezione che avevo dei suoi occhi era quella di un lago a testa in giù, enorme, immobile come uno specchio, pronto a frantumarsi e a lasciar piovere tutto quel dolore. Credo che la densità del suo sguardo sia la cosa che più rimane impressa nella memoria di chi l'ha conosciuta. O almeno nella mia. Non era qualcosa che avesse a che fare con la tonalità delle sue iridi, nè con la forma delle palpebre che ricordava i semi di girasole, piuttosto con la sua essenza più intima che non usciva dalle parole, nè dai gesti, ma, appunto, da quelle due finestre aperte su un universo tanto piccolo quanto complesso. Alina era una persona difficile. Schiva, diffidente, brutalmente onesta, poco incline all'apertura; i suoi gusti in fatto di persone avevano il sapore amaro ma consapevole dei giudizi prematuri e inappellabili, spesso negativi. Viscerale nello scegliere le persone "no", non mancava mai di calcolare e dosare la distanza tra sè e gli altri.Io ero l'eccezione. Forse perchè, all'opposto di lei, parlavo molto e non nascondevo le mie emozioni. In maniera contorta, credo anche ammirasse la mia capacità di scovare il buono delle persone, pur non invidiandomi minimamente. La osservavo curiosa e un po'intimorita mentre mi studiava da lontano, silenziosa e sospettosa come una gatta, la settimana in cui arrivai nell'appartamento di Junailijankuja. Non era ostilità, quella nei suoi occhi, era probabilmente la confusione di trovarsi di fronte ad una persona cui si sentiva istintivamente di dire "si", senza alcuna motivazione valida a sostegno di questa cieca accettazione. Credo sia stata la prima volta in cui la sua pancia ha detto "si" ,prima ancora che lei potesse farsi un'idea chiara di chi avesse davanti, prima ancora che lei trovasse un motivo qualunque per dire "no".La mia esuberanza, la sua pacatezza, la mia risata facile, la sua cupezza prevalente, il mio equilibrismo, la sua bulimia emotiva ... Per qualche motivo che ancora mi sfugge, l'incastro dei rispettivi vuoti, dei pregi, delle brutture lasciate scoperte, delle bellezze vere come ferite aperte, ha creato un'immediata alchimia dell'anima, che non condanna nemmeno i difetti peggiori, che ama senza riserve.
Tempo fa mi ha telefonato. Piangeva. E aveva bevuto.
"Dove sei? Sono appena uscita da una festa. Fa freddo qui. Ho solo pensato che ora vorrei disperatamente tornare a casa e trovarti li. Ricordi quando dormivamo insieme? Ecco, ora dormire insieme rimetterebbe tutto a posto"
Lei sta bene. A tratti, ma sta bene. L'unica cosa che mi preoccupa è che ora servono le parole a colmare la distanza. Prima, le bocche erano chiuse, bastavano due paia di occhi a dire tutto quello che non ha voce. Basteranno le parole?
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