I luoghi simboli della potenza americana sono due, entrambi ubicati a Washington DC: uno è la Casa Bianca e l’altro è il Campidoglio, la sede del Congresso. Mentre la prima è attualmente chiusa alle visite degli stranieri, il secondo è aperto al pubblico. Io ci sono andato un venerdì di luglio.
Già l’indirizzo dell’edificio presenta una particolarità: trovandosi esattamente al centro di una enorme rotatoria su cui convergono alcune delle principali arterie della capitale, fra cui la celeberrima Pennsylvania Avenue lungo cui si trova la Casa Bianca, il Campidoglio (o Capitol, come viene chiamato qui) è l’unico edificio di Washington che non è identificato da un numero civico.
Visto dall’esterno, impressionano le dimensioni gigantesche e la chiara ispirazione all’architettura greca e romana: inconfondibile l’enorme cupola simile a quella di San Pietro a Roma, sormontata in questo caso da una statua raffigurante la Libertà: le similitudini con Horatio Nelson e Napoleone, che dominano Londra e Parigi dalla cima delle loro colonne, non sono casuali.
All’interno si accede dal moderno e funzionale Centro Visitatori, in grado di accogliere i tanti turisti in spazi ampi e luminosi ma comunque criticato perché, a detta di molti, poco efficace nel rievocare le origini cristiane dello stato americano.
La visita vera e propria inizia subito dopo la proiezione di un filmato di venti minuti infarciti di retorica a stelle e strisce. Gli innumerevoli gruppi in cui vengono suddivisi i visitatori, ognuno guidato da un membro dello staff, si intrecciano e si accavallano lungo le sale che vengono via via attraversate creando una bolgia infernale in cui, obiettivamente, non è facile orientarsi.
Le mille contraddizioni di questo paese così complesso sono facilmente riscontrabili in questo edificio che ne rappresenta il cuore pulsante, dove tutti dovrebbero avere voce.
L’immensa tela che raffigura la conversione di Pocahontas al Cristianesimo – prima nativa american ad attraversare il profondo solco che divideva la sua cultura originaria da quella dei nuovi padroni – è il prodotto di un filone culturale dominante in passato e non ancora del tutto abbandonato.
Viceversa la statua celebrativa di un capo indiano mitiga solo in parte l’iconografia dominante nel resto dell’edificio. Analoghe considerazioni si potrebbero fare guardando le statue che celebrano le figure di spicco della popolazione afroamericana, ancora oggi in sostanza discriminata nella vita di tutti i giorni, sebbene non formalmente.
Molto interessante è anche assistere alle sedute del Congresso: si accede attraverso un ulteriore controllo di sicurezza, ma senza i complicati formalismi nostrani, e in pochi minuti ci si ritrova sul loggione per vedere dal vivo quelle immagini che ci sono comunque familiari, trasmesse quasi quotidianamente dalle televisioni di tutto il mondo. Entrare in quel luogo di potere quasi infinito, dove si prendono decisioni che si ripercuotono sul mondo intero, è sicuramente emozionante.
Impossibile anche non percepire la devozione assoluta che gli americani riservano ad alcune figure storiche del proprio passato: le guide non mancheranno di far notare ai visitatori ogni possibile riferimento a Washington o a Lincoln, assurti quasi al rango di divinità.
E un discorso a parte lo meritano proprio i visitatori, ovviamente in gran parte americani. Per tanti di loro, provenienti dalle migliaia di cittadine anonime dello sconfinato territorio americano, tutte uguali e tutte invariabilmente tristi, la gita a Washington rappresenta una sorta di pellegrinaggio alla Mecca da compiere almeno una volta nella vita. Il loro atteggiamento trasuda devozione profonda e orgoglio smisurato mentre ascoltano attentamente le spiegazioni delle guide: ogni particolare deve essere assolutamente fotografato anche se non necessariamente osservato, il proprio patriottismo esibito palesemente sui vestiti.
Anche questa, in fondo, è America.