Questo tuit –non per farne un vanto ma per prendere lo spunto- è stato rituittato a iosa, il che vuol dire che la questione è spinosa, che succede anche questo, che l’argomento è condiviso, e il mio cinismo pure. Perché c’è poco da inzuccherare e infiocchettare: l’amore su twitter non è che una semplice e immediata via di fuga. Nessuna condivisione di intenti, di argomenti e idee, alla fine ciò che cerchiamo non è che un brivido intenso che vada al di là della comunicazione di Equitalia o dell’avviso di pagamento per i lavori di condominio. Come cani da tartufo annusiamo tra milioni l'icona che ci darà l’intensa fretta di levarci tutti di torno per poterci dedicare all’effimero, al messaggio privato e alle foto, che l’ultima/o, ci ha inviato a sua volta di nascosto e tra sinceri e intensissimi tumulti.
L’amore alla deriva non è quello che abbiamo in casa, quello è resistente a tutto, anche alle follie che, tra i pochi capelli, il cinquantenne dal nickname da Superman e la foto di quand'era ragazzo, si è messo in testa. L’amore alla deriva è una compagnia cui raccontare l’indicibile, di quella volta che tirasti su una trota gigante, di quando ancora mettevi gli sci ai piedi e di quando avevi un corpo ben messo. Al momento vogliamo soltanto ciò che tutti chiamano amore, e basta, e che esuli –per carità- dalla famiglia e dagli amici, che ci conoscono bene, difetti inclusi, che sono tanti.
L’amore alla deriva è distante da quello onnipresente della sacra famiglia che pure abbiamo, anche se facciamo finta di niente, mentre giustifichiamo a noi stessi, e a grandi linee, tra gli scaffali del supermarket, l’inciampo del cuore e il breve e inutile sollazzo. Vogliamo una distrazione che ci tolga dal casino di responsabilità che ci siamo ritrovati addosso e che, anche se per poco, ci fa sentire come siamo dentro veramente o come vorremmo ancora essere. Come quella volta al mare di chissà quanti anni fa, con una lei per poco ancora ammirata dal tuo maschio coraggio e un “tu” pieno di nobili speranze, quando sotto la luna i violini suonavano intonati e ti sembrava di poter arrivare sino in fondo.
Siamo diventati campioni del tuit di nascosto, tra carciofi violetti e zucchine, mentre la nostra signora sceglie pomodori ultimo prezzo e candeggina, eccoci di nuovo romantici paladini -con dita tremanti- della cyberfuga da due minuti e trentacinque secondi: ti voglio, io pure. E basta. Siamo bugiardi e anche temerari quando il coniuge ci arriva alle spalle, e di soppiatto, e l’ansia ci fa perdere di vista macrocomandi e testa, e per coprire il monitor -e la pischella che ci guarda con il dito in bocca- non possiamo che inventarci qualcosa, un impeto di passione inaspettato, un romantico “Amo’ che ne diresti di una pizza”.
Dietro il dito che crediamo ci possa rendere invisibili, urliamo scuse banali, l'autoritario “sto controllando la posta”, l’abituale “sono in bagno amore”, il permissivo “arrivo tesoro comincia a mangiare” quando dalla cucina, sempre quella da quindici anni, la moglie urla –o il marito di turno dal divano- “e che cazzo... ancora stai a tuità?”. E a quel punto, e nonostante la voce ci giunga come un chiaro segno di ostilità, di sospetto e di chiara allusione a un’illecita attività, torniamo al nostro quotidiano e in sala da pranzo con in faccia un sorriso un po’ idiota e nel cuore la certezza che al più presto saremo on line.
Insensata e ridicola qualunque linea difensiva. L’ansia di guardare ogni tre secondi se è arrivato un DM va ben al di là dell’accumulo ossessivo di follouers. Milioni le esche più o meno ghiotte: foto, tuit, menzioni più o meno umide, bio, PIC del profilo e tutte le robe che sappiamo usare. Sedurre on line è semplice come lasciar scivolare il fazzoletto accanto al tacco della nostra scarpa e guardarlo mentre si china fino a terra per raccoglierlo con eleganza. Il dopo già si sa. Il dopo si svolge nella nostra stanza privata, quella che se non siamo bravi a cancellare presto, e anche dalla posta, prima o poi la dolce metà scoprirà. Sono mail corpose o brevi richieste: quelle foto, quelle frasi, la tua bocca...
I pesci sono piccoli e molto grossi. Quelli dal palato sensibile e i dozzinali, cui basta il labbrone e una frase spinta, un bicipite e una frase maschia. C’è la timida per il timido, la poetessa per il poeta, la diavolessa per l’angelo vendicatore. Basta una frase seguita da punti sospensivi sempre densi di reconditi significati, qualcosa che lasci intravedere il desiderio, l’infelicità e l’incompiutezza di una vita tutta ostacoli, e subito il cuore si fa morbido e incline al sussurro.
Tutto si colora di rosa e quel tuit diventa leggero per andare esattamente dove deve: all’intenzione temeraria di fuggire a questo primo pomeriggio scuro e triste di dicembre, dai bambini da prendere a danza e a pallavolo, dalla spesa da fare al discount e alla lista dimenticata in ufficio, dal lavoro che non si trova. I semafori, all’improvviso benedetti, ci danno tempo di leggere e rispondere, di accarezzare per pochi istanti ancora la Pic di quel profilo che abbiamo già sognato tre volte, che non incontreremo mai ma che amiamo come un adolescente con ormone in subbuglio. E va bene anche così, non sempre si può avere un gelato artigianale. Dura poco, dura niente. Non ha odore, non ha pelle. Va bene il surrogato, va bene ciò che resta, va bene l’immagine che ho di lui e quella che lui, di me, si porta a letto. Tutto, sì, purché ci batta ancora il cuore in petto.