Magazine Diario personale
La prima volta che mi fu detto, anzi urlato, avevo cinque anni e credo sia stato quello l’episodio più spaventoso della mia vita (esclusi la mia disavventura imprenditoriale e il mio primo matrimonio).
Andavo spesso a pattinare nel giardino condominiale di quella che allora non era ancora la mia amica del cuore. Anzi, per dirla tutta mi era stata imposta dai miei e io quasi non la sopportavo, però, visto che aveva una pista molto grande e una casa di Barbie ultimo modello
- e io nasco sfacciatamente opportunista- mi piegai alla loro volontà.
Ma dopo alcune settimane lei e le sue amichette continuavano ad avere verso di me un’aria ostile.
Appena arrivavo al Parco si facevano scure in viso ed era tutto un riferire alle orecchie dell’altra per fermarsi prima del mio.
Un giorno, era un pomeriggio gelido con pastina all’uovo ancora sullo stomaco, mio padre mi lasciò come sempre davanti al portone di una di loro dove però, stranamente, non c’era ancora anima viva.
Dopo aver aspettato inutilmente una decina di minuti mi avviai verso la pista con i pattini ai piedi. Ricordo anche com’ero vestita. Visibilissima, visto che indossavo una gonnellina rossa di velluto, la classica calzamaglia di lana e un pesante giaccone con cappuccio anch’esso rosso su un maglione –che pizzicava da morire- giallo canarino.
I maschietti erano già in attesa sul margine della pista pronti a sfidarci come ogni giorno con pattini e skateboard, ma delle femminucce nemmeno l’ombra. Iniziai a giocare senza di loro e io, unica bambina del gruppo, fui riempita di regali e dolciumi. Alle cinque papà sarebbe passato a riprendermi e così mi avviai al cancello attraversando il parco finché, esattamente dov’era più buio e folto mi sentii chiamare.
Erano lì tutte e cinque che mi fissavano con sguardo beffardo e mani sui fianchi. Mi avvicinai per baciarle e una di loro, la più alta, mi spinse così forte da farmi cadere all’indietro.
“Scendi dal piedistallo!”, mi urlò con un’espressione da far paura.
“Ma chi ti credi di essere!”, rafforzò l’altra con occhiali spessi e apparecchio ai denti.
“Non ti vogliamo più qui!”, abbaiò la terza bambina rosso carota.
“Ma guardala lei... che pattina come una star del ghiaccio con i nostri amici!”, fece la quarta.
L’amica imposta, invece, se ne restava vigliaccamente nell’ombra. Solo anni dopo mi confessò che l’agguato era stato studiato e preparato da tempo dopo aver accumulato tanta invidia da far rinsecchire l’albero di Natale ancora addobbato in salone.
Rimasero a fissarmi inferocite finché non scoppiai in lacrime e, felici del risultato, si allontanarono nel buio.
Contrariamente al solito non raccontai nulla a mio padre, giustificai il fango sul giaccone con una caduta accidentale e dissimulai il mio stato d’animo umiliato parlando d’altro. Tornata a casa ebbi una crisi acentonimica. Guarita, tirai fuori una scusa dopo l’altra e lì non ci tornai che anni dopo e senza pattini ai piedi ma con un fidanzatino da fare invidia vera.
Nonostante siano passati tanti anni quell’episodio brucia ancora, ed è per questo che leggo e rileggo i miei pezzi con il sacro terrore che vi sia dentro un giudizio troppo arrogante. Cerco prove e riprove di ciò che affermo affinché nessuno possa digitare l’odiosa frase: scendi dal piedistallo! (E minaccio sin da ora di defollow chiunque lo farà adesso “tanto per scherzo”).
Allora ci ho ragionato.
Io non ho mai sentito il bisogno di dire a qualcuno di scendere dal piedistallo e credo che sia perché il mondo è così pieno di rare bellezze che non vedo che male ci sia che stiano tutte molto più in alto di me.
Eppure è una frase che leggo fin troppo spesso e proprio nel luogo dove ci s’iscrive per confrontarsi, sì, ma anche per ricevere gratificazioni attraverso l’ottenimento di follower e di rituit.
E non fate gli ipocriti adesso nascondendovi dietro il solito dito!
Certo, se fossimo in un gruppo di catechesi o di psicoterapia potrei capire il disappunto di fronte a un’alzata di testa, ma siamo nel social network della competizione per antonomasia, e chi ancora non se ne fosse accorto o è eccessivamente in buona fede o un pochino stupido.
Nessuno pretende di avere la verità in tasca, ma nemmeno possiamo negare che ognuno abbia il sacrosanto diritto a esprimere un punto di vista che normalmente –e non più da qualche tempo- se condiviso, andrebbe “addirittura” rituittato.
Ognuno porta in un tuit il proprio sudato bagaglio culturale fatto di anni di letture e studio, di esperienze, di lavoro e di briefing aziendali e che anziché ricopiato, e male, o commentato, inutilmente, andrebbe fatto proprio con un gesto di definitivo apprezzamento.
Sempre più spesso, invece, all’alzata di spalle dello “sticazzi” odioso, di chi non sa replicare o di chi, colto in fallo non ammette di avere torto, leggo il fastidiosissimo “scendi dal piedistallo” o diretto all’interlocutore o peggio scritto alle sue spalle.
Si suppone, intanto, che poiché ci troviamo nello stesso “non luogo” siamo tutti uguali.
Che sicurezza in se stessi significa presunzione.
Che sul piedistallo ci debba mettere un terzo individuo, ossia i media, e non l’esperienza maturata negli anni e magari non millantata di continuo come fanno in tanti.
Infine, si presume, che a tirarci giù dalle supposte altezze possa essere chiunque e senza motivazione alcuna o peggio solo per rabbia.
A ben guardare i profili di chi s’indigna di continuo credo che i primi a emettere un giudizio siano proprio quelli che si sentono in basso e vedono piedistalli anche dove non ci sono.
D’altra parte, anche Genoveffa e Anastasia si sentivano degne di diventare regine considerando la povera Cenerentola una stupida presuntuosa, come i tanti che mi rispondono, quando do loro consigli –inutili- su come sfruttare al meglio tuitter, che in fondo TUTTO è solo una questione soggettiva.
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