Destinatario sconosciuto

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Ho quasi novantasette anni, o almeno così mi sembra di ricordare.
Ho perso la cognizione del tempo; non so più da quanti giorni, forse mesi, non mi alzo più da questo letto. Tutto il mio mondo è il soffitto della mia stanza: ne conosco a memoria ogni sfumatura, ogni striatura, ogni piccola imperfezione.
Intorno a me, sempre più vicina, sempre più determinata, volteggia la morte.
Non ha un volto cattivo, no, e non ha nemmeno la falce.
Ha occhi benevoli ed uno sguardo pietoso. Oggi mi guarda più intensamente del solito.
Dormo quasi sempre. E’ un sonno che, però, non mi ristora; con le poche forze che mi sono rimaste, cerco di riemergere ogni volta che posso per concentrarmi sul volto di chi mi parla.
<< Vuoi un po’ d’acqua, nonna?>>.
<< Mangia la pastina, devi rimetterti in forze >>.
Sorrido per non deludere ed apro la bocca per ingoiare, con grande fatica, un cucchiaino di qualcosa che mi sembra cemento lungo l’esofago.
Che fatica morire!
Passano nella mia mente immagini confuse, vorticose, delle quali non riesco ad afferrare il filo logico.
Ma i volti, i luoghi, le situazioni sono quelle della mia infanzia e della mia giovinezza.
Mi rivedo bambina. Non ho stanchezza nelle gambe, e corro, corro verso casa mia.
La sarta per la quale lavoro come apprendista mi ha dato il mio primo “stipendio” e mi ha detto :<< Maria, continua così. Sei svelta ed hai questo mestiere nel sangue. Diventerai bravissima!>>.
Non vedo l’ora di dirlo a mia madre e di darle i primi soldi che ho guadagnato.
Ho solo nove anni!
Dal turbinio di volti sfocati e di paesaggi nebulosi, oggi più roteante del solito, ogni tanto emerge una situazione chiara.
Mi rivedo ragazzina, inginocchiata sul greto del fiume.
Lavo, strofino con il sapone fatto in casa con il grasso del maiale, risciacquo: incredibile, non sento nessuna stanchezza. Che bella cosa la gioventù!
Cantiamo tutte in coro, io e le mie amiche:

Amor dammi quel fazzolettino
Amor dammi quel fazzolettino
Amor dammi quel fazzolettino
Vado alla fonte e lo vado a lavar

All’improvviso la scena cambia. Intorno a me non c’è più il fiume, i prati, non ci sono più gli alberi sui quali sventolava il bucato.
Sono avvolta da una nebbia densa, non bianca però, ma marrone, marrone chiaro.
Mi gira la testa ed ho paura a lasciarmi andare al nuovo incubo.
Mi ritrovo in mezzo a strani suoni, voci confuse, volti indistinti.
Sono nel panico. Come un cieco vago a tentoni, al tatto non sento niente, solo il freddo glaciale della nebbia marrone.
Tento di gridare ma dalla mia bocca non esce neanche un lamento.
Vorrei chiudere gli occhi ma non ci riesco. Ho lo sguardo sbarrato e fisso su due puntini che emergono dallo scenario indistinto: pulsano, si ingrandiscono e assumono finalmente una forma definita. Sono due occhi.
Sono i suoi occhi.
Prende forma il suo viso e , pian piano, le sua braccia, il suo torace, le sue gambe vengono fuori dalla spessa coltre.
Urlo, urlo a più non posso, gli corro incontro e lo abbraccio.
“Sei tu…sei tu…amore mio!”.
Mi guarda e mi sorride. Sembra felice di vedermi. Lo posso toccare, non è un fantasma.
E’ lui. E’ Giuseppe, mio marito.
Gli accarezzo la faccia, gli prendo le mani e me le porto sul mio volto.
Lacrime, lacrime vere e salate, solcano il mio viso e brillano nei suoi occhi.
Non ho più voglia di uscire dall’incubo.

Sono passati settantaquattro anni. Settantaquattro anni che ho contato uno a uno da quando sei salito su quella nave che ti ha portato via per sempre.
Buenos Aires doveva essere la speranza di un futuro migliore, e invece si è trasformata in un incubo che ti ha inghiottito, e con te ha inghiottito anche i miei sogni, i miei progetti di vita, quella vita che sognavo di trascorrere insieme a te.
Ricordi Giuseppe, ricordi il nostro primo incontro?
Era la festa del paese: c’erano le bancarelle, la banda, le luminarie.
Io passeggiavo con le mie amiche quando, da quella confusione, sei emerso tu.
E’ bastato uno sguardo e ci siamo innamorati.
Avevamo entrambi ventun’anni.
Senza una lira, ma ricchi di amore e di speranze, ci siamo sposati.
Era il venticinque aprile del 1920.
Com’eri bello, Giuseppe, con quel vestito nuovo che ti avevo cucito io: le scarpe nuove, il fiore all’occhiello. Pioveva a dirotto quel giorno.
“Sposa bagnata , sposa fortunata” qualcuno urlò al passaggio del corteo nuziale.
Nel nostro caso, però, l’augurio non ha funzionato.
Tu barbiere, io sarta: ci aspettava una vita di lavoro e di sacrifici, ma il pane non ci sarebbe mancato. Ma tu no, non ti sei accontentato, volevi di più.
Buenos Aires sembrava un sogno a portata di mano.
“Solo pochi anni” – mi dicevi – “pochi anni di sacrifici, e poi tornerò con un bel gruzzolo, ci potremo comprare una bella casa grande, e tu non dovrai cucire fino a tardi”.
Ho finto di crederti. Ti amavo e non volevo tarparti le ali.
Ma sapevo che non era di me che ti preoccupavi e neppure della casa grande.
Ti ho lasciato partire, ti ho lasciato inseguire la fortuna alla quale anelavi dall’altra parte dell’oceano.
Ti ho accompagnato al porto di Napoli.
Ricordo ancora la nave, grande, immensa. Si chiamava Sofia.
Quando eravamo sulla banchina in attesa dell’imbarco hai avuto paura, te l’ho letta negli occhi.
Quei bei occhi spavaldi erano improvvisamente diventati lucidi e timorosi.
E allora sono stata io ad incoraggiarti.
“Pochi anni” – ti ho detto – “pochi anni di sacrifici e poi tornerai con un bel gruzzolo e ci compreremo una bella casa grande ed io non dovrò cucire fino a tardi”.
Ti ho incoraggiato con le tue stesse parole, perché ne avevi bisogno.
Sei salito su Sofia e Sofia ti ha portato via. Ho sventolato il fazzoletto fino a quando sei diventato un puntino, fino a quando ti ho perso, confuso in mezzo a quel mare di volti scavati, a quelle facce spaurite, a quei fazzoletti agitati al vento.
Ho ingoiato lacrime e rabbia e sono tornata al paese, in mezzo alle montagne dell’Appennino. Ho ripreso a cucire fino a tardi.
La notte era la cosa più dura da sopportare senza di te.
Poi mi sono accorta che non mi avevi lasciato da sola, no. C’era qualcosa di tuo che cresceva dentro di me. Che gioia: era il segno che aspettavo, era la prova che la nostra era ancora una famiglia, una famiglia che, unita, avrebbe vinto la lontananza.
“Appena arrivo” – mi avevi detto – “ ti scrivo e ti do il mio indirizzo”.
Mamma mia, che angoscia quella prima lettera che non arrivava mai.
Ogni volta che sentivo nel vicolo gli inconfondibili passi strascicati e il respiro affannoso del postino smettevo di cucire e correvo ad affacciarmi, ma, niente, mi guardava sconsolato e scuoteva il capo.
Quando finalmente la lettera è arrivata l’ho capito dal postino.
E’ arrivato di corsa: gli ridevano persino gli occhi e sventolava una busta tra le mani.
L’ho letta qualche decina di volte.
Mi dicevi che eri arrivato, che il viaggio era andato bene, anche se ti era sembrato interminabile.
Mi davi un indirizzo, provvisorio, dove ti potevo scrivere.
Ti ho risposto immediatamente, ti ho detto del bambino e di quanto mi mancavi.
Dopo due mesi mi è arrivata la tua risposta.
Eri felice del bambino che, mi raccomandavi, avrei dovuto chiamare come tuo padre, se fosse stato maschio, e come tua madre se fosse stata femmina.
Mi hai dato un altro indirizzo, sempre provvisorio, al quale ti ho risposto immediatamente, rassicurandoti: “Certo” – ho scritto – “come vuoi che lo chiami!”.
Dopo un altro paio di lettere è nato tuo figlio che, tra una lettera e l’altra, faceva enormi progressi e ti somigliava sempre di più.
Ho mandato qualche foto, a qualcuno dei tuoi temporanei indirizzi.
Se ti chiedevo come andava il lavoro, se ti eri sistemato, non rispondevi mai, anzi sembravi infastidito. Quando ti ho scritto con gli auguri di Pasqua e mi hai risposto con quelli di Natale, ho capito che qualcosa non andava.
E un giorno il portalettere è venuto da me con una busta e la faccia sconsolata.
“Che strano” – ho pensato – “di solito quando mi porta una lettera è sempre allegro”.
Me l’ha messa in mano senza parlare, poi ha abbassato gli occhi ed è andato via.
L’ho guardata ed ho capito: non era una tua lettera, era la mia lettera, tornata al mittente con un timbro, nero e marcato ; Destino desconoscido.
Ho rincorso il portalettere: “Cosa vuol dire ?” – gli ho chiesto.
“Che non sta a quell’indirizzo”, mi ha risposto senza guardarmi.
“E dove sta?”, ma sapevo che era una domanda stupida.
Non mi ha risposto, non poteva. E’ andato via lentamente ed io, lentamente, sono rientrata in casa.
Non è stato facile, amore mio.
Ho lavorato sodo per crescere il nostro bambino, per farlo studiare e dargli un avvenire un po’ più sicuro del nostro.
Non è stato facile ma ce l’ho fatta.
Non ti ho mai pensato morto, nemmeno quando al comune sono stata dichiarata “vedova bianca”: l’ho accettato solo per permettere a nostro figlio di non andare al fronte durante la guerra, ma nel mio cuore non mi sono mai sentita vedova.
Quando pensavo a te con un’altra donna al fianco mi sentivo morire di rabbia e gelosia,
io che sono sempre stata tua moglie, che mi sono sempre sentita tua moglie, davanti a Dio e davanti agli uomini.
Ma ora nulla ha più importanza, amore mio.
Sei tornato, come mi avevi promesso.
Sei tornato per portarmi con te.
Dammi la mano, amore mio, dammi la mano e non lasciarla mai più.
Dammi la forza per staccarmi da questo letto e venire via con te.
Con te affianco mi sento sicura e non ho paura.
Sento la gioventù tornare a fluire nelle mie vene, il respiro libero e forte, le gambe vigorose.
Mi giro solo un momento: mi si stringe il cuore alla vista si quel corpo inerte e di quel capo bianco reclinato sul cuscino. Ma è solo un attimo: quello non è più il mio corpo.
Mi giro e tu sei ancora lì, giovane come quando sei partito. Il tuo sorriso è rassicurante: so che non mi lascerai mai più.
Ti do la mano e, insieme, ci avviamo finalmente verso la vera vita.

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