Di fatto questa è la seconda puntata di un mio precedente articolo sulla destra.
1. Quando scoppiò la crisi del 1929, la più famosa delle crisi – e non solo per gli economisti ma anche per artisti e soprattutto cineasti – la spiegazione “ufficiale” degli “scienziati” della corrente dominante tradizionale (neoclassica; ad es. Pigou, allievo e successore di Marshall al King’s College di Cambridge) fu legata alle “imperfezioni” nel mercato del “fattore” lavoro (la merce forza lavoro in realtà) dovute alla presenza dei sindacati. In soldoni, il salario era tenuto al di sopra della produttività marginale di quel fattore (ad andamento decrescente al crescere del suo impiego) e di conseguenza una parte di quest’ultimo rimaneva disoccupata onde ripristinare l’eguaglianza. Si sarebbero dovuti dunque ridurre i salari in modo da ridare rimuneratività agli investimenti degli imprenditori (i domandanti del fattore in questione).
La soluzione “pratica” escogitata per combattere la crisi durante il New Deal fu diversa, con riassorbimento di parte della disoccupazione grazie alla spesa pubblica (in infrastrutture e altro), e tale soluzione trovò poi la sua “consacrazione” teorica nell’opera keynesiana che, passando a considerazioni macroeconomiche (quantità aggregate), sostenne che la causa principale della crisi era rappresentata da una carenza della domanda complessiva dovuta ad un eccesso di risparmio (eccesso relativo rispetto alla domanda per investimenti, insufficiente per scarsa profittabilità e non stimolata a dovere nemmeno con riduzione dei tassi di interesse sui prestiti) nei paesi ad alto sviluppo (capitalistico) con una consistente precedente accumulazione di “fattore” capitale (che in tale teoria non è certo un rapporto sociale come in Marx!). Era giusto dunque che lo Stato intervenisse con la sua domanda (“spesa pubblica”) per sanare l’insufficienza di quella proveniente dai “privati”. E tale spesa era meglio fosse in deficit di bilancio (e, in definitiva, con possibile crescita, almeno temporanea, del debito pubblico) altrimenti la spesa dello Stato avrebbe magari potuto soltanto sostituire quella privata in ulteriore diminuzione per l’imposizione fiscale.
In realtà, nemmeno la spesa pubblica fu sufficiente ad evitare che, dopo pochi anni (già nel ’36-37), l’economia fosse di nuovo in stato di debolezza e sembrasse entrata in una situazione di tendenziale ristagno (con ulteriori teorizzazioni in tal senso), da cui uscì “brillantemente” con la seconda guerra mondiale; e non semplicemente e non tanto per lo stimolo della spesa (domanda) statale tesa a incrementare la fabbricazione d’armi (solita spiegazione economicistica; in pratica nessuna interpretazione della crisi è mai uscita dall’ambito solo economico) quanto per la formazione di un centro regolatore (gli Usa) del polo capitalistico (quello “occidentale”, definito il “mondo libero”, perché liberato ad opera degli americani, i quali, come sanno bene gli indiani, sono “liberatori” per eccellenza), mentre l’altro polo, detto altrettanto impropriamente “socialista”, fu controllato dall’Urss (salvo, a partire dagli anni ‘60, l’emergere di un elemento di forte “disturbo”, la Cina, uno dei fattori della sua crisi con quel che ne seguì a fine anni ‘80).
Nel secondo dopoguerra, nel polo capitalistico, regolato (dominato) dagli Stati Uniti, il keynesismo, più o meno riveduto e corretto, servì a promuovere lo Stato “sociale”, ma esclusivamente nel capitalismo detto poi renano, cioè in quei paesi del polo soggetti al predominio statunitense. Le socialdemocrazie, in particolare, abbandonarono il marxismo (già del tutto edulcorato e “massacrato”) e si dettero alla nuova versione della socialità intesa a diminuire le maggiori e più evidenti diseguaglianze di ricchezza privata (in realtà dettero solo fumo negli occhi, ma che comunque servì al suo scopo). Le spiegazioni del fatto furono molte. Alcuni sostennero che si trattava della paura che in “occidente” (comprendente pure il Giappone) si diffondesse il “virus” proveniente dall’Urss e dal campo “socialista”; tesi dimostratasi assai debole sia perché solo in Italia e Francia esistevano forti partiti comunisti sia perché già a partire dalla fine anni ’50 e soprattutto nei ’60 il “socialismo” mostrò ampi segni di scarsa desiderabilità da parte delle “masse occidentali”, dove del resto divenne sempre più evidente l’errore marxista dell’attribuzione alla Classe (operaia) di un in sé rivoluzionario, invece del tutto assente (salvo che nelle prime fasi dell’industrializzazione, nel passaggio dalla condizione di contadini a quella di operai). Infine, oggi sappiamo bene che, già nel 1969, il Pci iniziò il suo passaggio di campo.
Altra spiegazione, meno cervellotica, fu la tendenza del capitalismo a crearsi comunque un mercato di consumo di massa, senza di che non avrebbe nemmeno potuto realizzare il plusvalore (pluslavoro) formatosi nella produzione ad opera della forza lavoro, venduta come merce ed ivi impiegata. In effetti, tutte le tendenze pauperiste (e sottoconsumiste) del marxismo, che predicevano il futuro crollo del sistema o comunque l’impossibilità di un suo ulteriore sviluppo, mostravano ormai una decrepitezza insostenibile, pur se fior di marxisti (pienamente reazionari) si sono incaponiti a lungo in tale credenza. Tuttavia, se è ragionevole affermare che il capitalismo riesce ad elevare il tenore di vita di più larghe porzioni della popolazione (e Marx mai lo negò, pur se non mi diffondo adesso qui in disquisizioni al proposito, ormai superate del resto) – e se la “Classe” è, nello sviluppo capitalistico, in diminuzione a favore dei cosiddetti ceti medi – più difficile è confutare, pur facendo ricorso agli elementi di monopolizzazione dei mercati, la tesi di una tendenziale anarchia degli stessi in seguito all’aspra concorrenza tra le varie imprese (anche oligopolistiche, come l’innesco della “terza rivoluzione industriale” ebbe modo di dimostrare). E’ indispensabile superare il mero economicismo, passando al livello del conflitto (strategico) tra potenze (formazioni sociali particolari) e della formazione di aree da queste controllate in cui si stabilisce una gerarchia tra vari paesi con il predominio (parzialmente regolatore) di uno di essi (ad es. gli Usa nel campo o polo capitalistico).
In ogni caso, non è in questa sede mio interesse ripercorrere la storia di quegli anni e il sostanziale fallimento, o almeno impasse, delle teorie solo economicistiche mutuate dal più o meno ben interpretato keynesismo (nella sua versione soprattutto tipica delle socialdemocrazie europee), che fu infine esautorato con il ritorno alla prevalenza del liberismo, ancor oggi a mio avviso non efficacemente contrastato dalle precedenti correnti (che dominarono nelle Università e nella politica economica degli Stati capitalistici per almeno tre decenni e più); malgrado qualcuno sia convinto che sia iniziata negli ultimi tempi la crisi del neoliberismo.
2. Già abbiamo detto più volte come, da quando si è manifestata quattro anni fa la più grave crisi economica del dopoguerra, si sia enfatizzato il suo solito lato finanziario (che è sempre il “terremoto” dovuto agli “scontri tettonici” sottostanti, interessanti l’economia detta reale, cioè produttiva); ultimamente si è verificato l’asfissiante bombardamento sulle crisi di borsa, lo spread e via dicendo. Tuttavia, per quanto riguarda in particolare l’Italia, un altro tormentone è il Debito pubblico (e il deficit annuale che ne è una causa). Se non si sana questo – senza peraltro che si sia prestata sufficiente attenzione alle proporzioni secondo cui i titoli del Debito sono in mano a “istituzioni” straniere o invece a “risparmiatori” italiani (ma quali? Alcuni sono fortemente legati e subordinati alle precedenti istituzioni) – faremo una brutta fine. Chi lo afferma credo sappia di dirlo per spaventare la popolazione e far passare varie misure politiche – e non di semplice politica economica – che sanciscono la nostra subalternità a centri strategici dominanti (cioè decisori d’ultima istanza) situati altrove, di fatto oltreatlantico. Tuttavia, vi è anche la profonda insensibilità e incomprensione dei “tecnici” (intellettualmente molto limitati) in merito alle determinanti della politica (di potenza o meno) dei vari paesi.
Intanto, ricordiamo che indubbiamente il nostro Debito pubblico è in pratica esploso dopo (non subito dopo, ma un ritardo è normale) il sedicente “compromesso storico” (soprattutto dal 1976), quando di fatto si ampliò il settore (impiegatizio) pubblico, in tutti i campi (compreso quello dell’informazione), per accogliere le istanze, diciamo “d’inserimento”, dell’ex opposizione ex comunista. Di tale fenomeno è stata data una spiegazione assai parziale: soddisfare gli appetiti di più partiti ormai agganciati al carro del potere (aperto o mascherato, come nel caso del Pci e del sindacato) nella direzione e governo del paese. Non c’era però solo questo. Era in gestazione, fin dalla fine degli anni ’60 e soprattutto nei ’70, un profondo, pur se ancora impercettibile empiricamente, mutamento nei rapporti di forza tra i due poli mondiali; il che provocò cambiamenti strategici degli Usa (controversi e combattuti pure al loro interno tra i vari gruppi dominanti) con una serie di aperture verso settori considerati ancora comunisti, addirittura legati all’Urss (mentre non lo erano già più).
Ciò riguardò in particolare il nostro paese, con il Pci di cui va seguito l’iter a partire dalla condanna dell’intervento sovietico in Cecoslovacchia (1968) e dall’ascesa di Berlinguer, uno dei principali critici di quell’intervento, vicesegretario nel ’69 e segretario nel ’72; con l’appoggio dei settori detti ingraiani e di “sinistra”, che giocarono il doppio ruolo di moderati filo-maoisti, perché la Cina indeboliva il polo guidato dall’Urss, potenza antagonista degli Usa, e di smaccati filo-occidentali, appoggiando la “primavera praghese” e poi il movimento polacco di Solidarnosc. La Rossanda – quella a cui mi sembra siano ultimamente piaciuti pure la “primavera araba” ed in particolare il massacro della Libia e di Gheddafi – scrisse, se non ricordo male (cosa sempre possibile, per carità; basta comunque verificare a fine agosto ’80 ne Il Manifesto), delle enormità: il movimento di quel mese cruciale in Polonia era paragonabile al ’17 sovietico e Walesa a Lenin (chiara comunque la squallida funzione assolta dalla “sinistra” piciista?).
Adesso non disperdiamoci; questo blog dedicherà altre puntate a quegli eventi senza i quali non si spiegano gli anni ’70 (detti “di piombo”) né il perché il ’68 (in realtà proprio tutta un’altra cosa nel nostro paese rispetto ad altri) sia durato assai più a lungo in Italia, campo decisivo di battaglia, anche tra Servizi d’Intelligence (con “input” di alcuni di quelli euro-orientali e “risposta infiltrante” dall’altra parte), per favorire il passaggio del piciismo “occidentale” (in definitiva, l’italiano) nel campo statunitense e per la formazione di punti di appoggio ai settori che, nel campo “socialista” (per nulla tale sia chiaro, tuttavia antagonista di quello atlantico), provocarono infine l’implosione della fine anni ’80 e seguenti.
Qui interessa solo ricordare che il Debito pubblico italiano è in gran parte effetto di quel campo di battaglia che fu l’Italia, con il suo “eurocomunismo”, nella lotta degli Usa – con l’appoggio dei “cotonieri” italiani della Confindustria, guidati da Agnelli – per la vittoria sull’antagonista. Il Debito è frutto dell’occupazione di importanti settori, soprattutto della sfera pubblica, da parte dei nuovi scherani di Usa e “cotonieri”, settori da cui iniziarono le manovre ventennali conclusesi con “mani pulite”. Due furono i principali oppositori di tale lungo (e segreto) processo (mai svelato nemmeno oggi): Moro, forse il più lucido e informato (anche dei retroscena della rilevante vicenda cilena e altro), che fu eliminato nel ’78, anno fatidico pure per altri “eventi”; e Craxi, meno lucido e più focoso, fatto fuori appunto mediante “mani pulite” in modo non altrettanto traumatico. Andreotti, il “navigatore” nei “mari procellosi”, accettò in buon silenzio di lasciare che “passasse ‘a nuttata”; e nulla ha detto di ciò che sa, così come non lo ha detto neppure Cossiga che pure molto ha parlato, affermando cose vere tuttavia mischiate a tanta “nebbia fitta”.
3. Ebbene, si distinguono forse destra e sinistra sulla rilevanza asfissiante attribuita al Debito pubblico? No, fanno a gara come fossero entrambe liberiste. Ed infatti, se intendiamo il neoliberismo in un significato così povero (penso che Hayek si rivolti nella tomba, come suole dirsi in casi simili), esse sono entrambe liberiste. La sinistra è considerata statalista solo perché non vuol affrontare la riduzione del Debito con drastici tagli della spesa legata all’impiego pubblico; e soprattutto non intende rinunciare alla possibilità di svolgere una serie di “operazioni”, per le quali necessitano adeguati fondi a disposizione delle casse pubbliche e di chi vi attinge. Si dice che tale schieramento si comporti così per motivi elettorali. Non vi è dubbio che dopo quarant’anni o quasi di politica consentita da quella fonte – ma, lo ripeto, soprattutto per realizzare il cambio di campo piciista – si sono create fortissime incrostazioni da “eccesso di impiego pubblico” nei più svariati settori, ivi compresi quelli cardine dello Stato sociale: pensioni e sanità. Adesso, ridurre tale spesa per quella via creerebbe senza dubbio motivi di dissesto sociale e di rapido indebolimento della sinistra. Quindi, essa sceglie a favore del carico di imposte, dell’attacco ai “patrimoni” (anche a quelli che non sono certo pingui), ecc. Con ciò prestando il fianco a facili critiche perché si sta senz’altro diminuendo la capacità di spesa e dunque la domanda in un momento di crisi, si devitalizzano i settori produttivi e, di fatto, si inaridisce pure la fonte dell’imposizione (il reddito), com’è ben dimostrato dall’aumento del Debito pubblico durante questo governo di “tecnici”, che in realtà reagisce con notevole incoerenza agli stimoli contraddittorî della sfatta maggioranza che lo sostiene.
La destra finge un atteggiamento di vero “liberalismo”: meno imposizione (nel tentativo di recuperare credito, pure elettorale, presso il lavoro detto autonomo, la piccola impresa, ecc.) e sfoltimento degli impiegati nei settori pubblici. Con un monte di incongruenze, perché una sua parte non vuol eliminare nemmeno le province, protesta per tagli alle Regioni come ai comuni, ecc. Soprattutto è in pieno caos dopo che a Berlusconi è stato infine imposto di mettersi da parte; forse solo temporaneamente per poi tornare in nuova veste, ma quest’ultima ancora non si capisce quale sarà. Del resto, di fronte ha la sinistra che vive da vent’anni di antiberlusconismo ed è guidata da inetti e scialbi esecutori di ordini provenienti da “lontano”.
L’unico punto su cui entrambi gli schieramenti sembrano abbastanza d’accordo, almeno “in linea di principio”, sono le liberalizzazioni e conseguenti privatizzazioni. La liberalizzazione viene contrabbandata come capace di accrescere la competizione nel presunto “libero mercato” con diminuzione dei prezzi, fenomeno “paranormale” mai visto (forse nell’800) se non in settori di prodotti nuovi appena lanciati, non certo nei servizi e beni di largo consumo e d’uso più antico. La privatizzazione ha trovato buoni campioni soprattutto a sinistra: paradigmatico il caso della Telecom venduta dal Governo D’Alema (1999) a sappiamo bene chi, con l’assenza di un “certo” Draghi (allora direttore generale del Tesoro) dalla riunione decisiva in cui avrebbe dovuto esercitare la golden share; un merito che “forse” gli procurò nel 2002 la carica di vicepresidente alla Goldman Sachs (certi fatterelli è sempre bene ricordarli). Della Banca d’Italia e di quella Europea inutile parlare, penso sia conosciuto il prosieguo della sua carriera. Di fatto, i piani di privatizzazione dell’industria pubblica furono parzialmente intralciati da Berlusconi, quando fu costretto a entrare in politica per non essere economicamente distrutto (dai confindustriali). Oggi ho l’impressione che pure lui seguirebbe la corrente.
In ogni caso, lo ribadisco, il Debito pubblico, dovuto alle ragioni già accennate, serve da scusa e paravento per le decisioni che smantellerebbero sempre più i nostri punti di forza. Non è chiaro fino in fondo quali siano le strategie – che credo non molto decise e procedenti “a vista” – per il nostro paese. Di sicuro, ai predominanti internazionali, gli statunitensi, non interessa l’appropriazione dei nostri settori produttivi. Nemmeno credo nutrano particolari intenzioni in merito all’acquisizione delle imprese (Eni e Finmeccanica in testa) di quelli detti strategici. Più che altro, uno sfascio come quello che si profila nel nostro paese serve a renderlo completamente asservito, terra non tanto di conquista quanto di complesse manovre sul piano internazionale (in date aree a noi vicine). In ogni caso, non lanciamoci subito in ipotesi che potrebbero rivelarsi inappropriate; è soltanto sicuro che si sta recitando una grande “commedia all’italiana”. Ci stanno imbrogliando e raccontando un mucchio di fandonie. La crisi è reale e non finanziaria; essa è particolarmente grave in Italia, per le carenze politiche e di piatta subalternità di cui continuiamo a parlare, ma è comunque un fenomeno generale, riguarda anche i paesi oggi in ascesa, poiché una crisi non è mai l’impoverimento generale, ma solo quello della maggioranza per l’arricchimento di una minoranza. D’altra parte, anche la storiella del Debito pubblico non tiene, non è questa la causa specifica della particolare gravità assunta dalla crisi in Italia.
L’aspetto decisivo di quest’ultima è politico, riguarda la fine di quella gerarchia esistente nel campo “occidentale” alla fine della seconda guerra mondiale; fu tale situazione internazionale a garantire per alcuni decenni una relativa regolazione nell’ambito del sistema capitalistico avanzato. Stanno oggi mutando i rapporti di forza in ambito mondiale; e di questo pure continueremo a trattare, per evitare fra l’altro l’equivoco nascente dall’indicazione (corretta) di un relativo declino degli Usa, che non significa però processo inarrestabile e ormai determinato (tutt’altro!). La crisi economica in Italia non è dovuta ai “cattivi”, “malefici”, finanzieri (interni e internazionali); e non nasce nemmeno dal Debito pubblico. Anch’essa è principalmente politica; e non perché la Germania intenda dominarci come cercano di farci credere alcuni “furboni”, che non se la sentono di negare il carattere politico della crisi (farebbero la figura dei cretini come gli economisti, “tecnici” o meno che siano) e allora dirottano in altro modo la nostra attenzione dall’effettiva subalternità impostaci dagli Usa (in particolare, oggi, da quelli di Obama). Da tale consapevolezza si deve ripartire; e cercando di controbattere alle bugie raccontateci intorno ai pesanti anni ’70, l’inizio della parte di gran lunga peggiore di tutta la storia d’Italia, di cui si è ipocritamente celebrato l’anno scorso il centocinquantenario dell’unità; e proprio con al vertice l’uomo più “amico” che gli Stati Uniti abbiano mai avuto in questo paese.