Anno: 2011
Distribuzione: OFFICINE UBU
Durata: 100′
Genere: Drammatico
Nazionalità: USA
Regia: Tony Kaye
Il pluripremiato film diretto da Tony Kaye (Premio Cartier Rivelazione e Premio internazionale della critica al Festival del cinema americano di Deauville 2011, Premio miglior contributo artistico al Tokyo International Film Festival; Premio del pubblico al Festival di San Paolo, Menzione d’onore al Woodstock Film Festival) potrebbe incarnare, da un punto di vista, meramente, promozionale l’eccezione che conferma la regola: mi riferisco al “distacco”, parafrasando il titolo della suddetta pellicola, con cui l’analista viene accolto leggendo il consueto press book distribuito prima della proiezione in sala.
In quest’ultimo sono infatti menzionati i dati tecnici dell’opera e biografici degli artisti coinvolti, mentre mancano del tutto interviste agli attori protagonisti, al regista, al direttore della fotografia ecc…ed ogni altro genere di supporto informativo per approfondire e/o tentare di conoscere, con maggiore acribia, un’opera davvero meritoria.
Un aforisma felliniano si adatterebbe alla situazione in questione formulando, di conseguenza, un valido teorema: il Maestro sosteneva che movimenti di macchina esagerati numericamente e stilisticamente in una sequenza erano sintomo di afasia o vera e propria incompetenza registica, pertanto ne deriva una proporzionalità inversa tra la “bellezza” tout court delle immagini in movimento ed il materiale stampa ad esse inerenti.
Ovvero se sul grande schermo l’opera brilla di luce propria, non le urgerà di venir supportata da elementi extrafilmici… come accade invece nella maggior parte dei casi, in cui sembra di avere tra le mani, per l’immensa mole di pagine, la sceneggiatura originale.
Detachment, a dispetto della ricerca di una distanza soprattutto fisica teorizzata, praticata ed esibita dal personaggio principale di nome Henry Barthes interpretato da un magnifico Adrien Brody (in veste anche di produttore esecutivo), si presenta come un polo di attrazione straordinario a cui è impossibile resistere da qualsiasi prospettiva spettatoriale (interna ed esterna) ci si collochi: il topos del film è abbastanza classico se individuato nell’arrivo dello “straniero”, del “diverso”, dell’”estraneo” lontano, distante, distaccato dal contesto circostante e dunque terribilmente seducente per via della novità impersonata (si veda ad esempio il meccanismo narrativo posto alla base sia del romanzo, sia del film Teorema di Pier Paolo Pasolini).
Da rilevare, per dovere di cronaca, è la corretta lezione del titolo della pellicola: Detach-ment con tanto di trattino e “ment” a capo come a dire che in un dettaglio si nasconde, alcune volte, “dio”, altre, lo specimen delle sue creazioni ribadito in testa e in coda come un dogma.
Naturalmente, prima di indagare il film, si tenga presente l’infinita gamma di metafore nascente dalla scelta di un, senza dubbio, fortunatissimo titolo: il senso di epicità, di attraversamento nel Tempo e nella Storia dell’Umanità (come se si ricostruisse un movimento di allontanamento, un esodo dell’animo), si coniuga alla perfezione con i vantaggi di una posizione ribelle in quanto virata verso rotte vecchie ossia nuovissime e…quindi “classiche”.
In merito a Tony Kaye e alla sua regia è plausibile istituire un paragone, in termini di modus operandi, con il caso cinematografico anch’esso “distaccato” dal resto dei colleghi “made in Hollywood”, chiamato Michael Mann.
Noto per il ferreo mantenimento alla maniera degli Europei della propria autorialità e del final cut in tutti i suoi film, Mann si è subito distinto come regista classico/post-classico attraverso l’adozione di precisi parametri estetici studiati con estrema attenzione e poi estratti, “rubati” dall’ incommensurabile cilindro della Hollywood classica mai tramontata, a dispetto dei certificati di morte fissati nei manuali di storia del cinema, all’altezza della metà degli anni Quaranta. Il lavoro compiuto all’interno dell’inquadratura visibile ergo analizzabile si basa sul connubio tra rielaborazione del “vecchio”, del “classico” inteso come prodotto autonomo, perfettamente esportabile e la produzione attraverso di essa del “nuovo”: la macchina da presa si muove senza farsi notare, quasi con fare anonimo mentre in silenzio si costruisce la messa in scena o meglio la messa in quadro.
La conseguente codificazione della scala dei campi e dei piani viene effettuata dagli spettatori che associano all’estetica, la poetica del regista desideroso evidentemente di mostrare il prodotto finale e non la fase dell’esecuzione.
Anche Tony Kaye riduce i movimenti di macchina al minimo per concedere spazio e tempo di “assorbimento visivo” alle inquadrature spesso statiche e riempite da grandi primi piani di volti e/o loro dettagli orchestrati facendo sparire ogni traccia dell’itinerario percorso.
(Sarebbe forse il caso di recuperare altre formule come il baziniano “montaggio proibito” per evidenziare la predominanza delle pure immagini esistenti a priori nella mente del regista rispetto alla mostrazione dei dinamismi della cinepresa, ma si rischierebbe di divagare in concetti come il virtuosismo, la bellezza, la pregnanza dell’inquadratura ecc… “Detach-ment” diviene monito anche per chi scrive!)
Si accennava, in precedenza, alla predominanza dei primi piani: nel film non mancano anche i cambi di obiettivo all’interno della stessa inquadratura e soprattutto è evidente la volontà di Kaye di “stare addosso” (proprio come Mann) ai personaggi per appropriarsi e restituire tutta la loro autentica psicologia. Ciò accade, per esempio, nei dialoghi tra coppie di individui.
Tuttavia in Detachment è fortemente presente un lavoro di montaggio magistrale in cui, insieme al valore assunto dal corpo estatico ovvero espressivo degli attori, la continua rottura di un’unità narrativa, di una linearità nelle esistenze focalizzate, mediante flashback del protagonista o frammenti di filmati in cui si vede e si sente parlare una moltitudine di altri personaggi ripresi in primo piano con sguardo rigorosamente in macchina, mantiene il “distacco” dall’affezionarsi ad una fabula ed un intreccio canonici e consacra la vera “regola del gioco” di tutta la pellicola.
E… non poteva, in fondo, essere diversamente… giacché anche il protagonista del film, il Professor Henry Barthes (cognome scelto in omaggio al ben più noto Roland francese?), nel primo discorso tenuto agli studenti ribelli ed annoiati di una tipica classe di un liceo malfamato della periferia americana consiste nel consentire di uscire dall’aula a quanti sono disinteressati alle sue parole: invita dunque a scegliere se restare dentro o andare fuori, distaccarsi dal gruppo, oppure partecipare alla crescita di una porzione di umanità, apprendendo la letteratura angloamericana che egli insegna in qualità di supplente.
Henry Barthes è un docente che, in controtendenza rispetto alle ricerche continue di stabilità e di posti di lavoro a tempo indeterminato, ha deciso di lavorare come supplente ovvero di stabilire una relazione con gli studenti in età adolescenziale deliberatmente non duratura: Mary Poppins o Vianne (del film Chocolat) dei giorni nostri il professore arriva, permane per un breve periodo e poi riparte diretto verso nuove vite, storie e problematiche.
“Supplire” ovvero aggiungere ciò che manca o colmare i bisogni costituisce una funzione didattica che Henry mantiene e pratica anche nella vita privata soccorrendo una ragazza, senza dubbio poco più che adolescente, come i suoi studenti, scappata di casa e dedita, per sopravvivere, alla prostituzione. Supplisce, ma con distacco alle gravi assenze dei genitori in famiglie ridotte a brandelli dove l’educazione verso le istituzioni va a farsi benedire mettendo in luce realtà in cui i giovani, spenti, arroganti, arrabbiati, senza obiettivi, violenti non hanno colpa per il degrado soprattutto morale, in cui sono stati allevati e continueranno a vivere (emblematico l’episodio del gatto ucciso a pugni in uno zaino e del suo assassino che, una volta scoperto da Henry, dichiara di sentirsi non mortificato, ma «trapped like the cat»).
Il distacco di Henry inteso come approccio all’inferno controllato, calcolato, (in apparenza) privo di emozioni, in quanto diverso dal costante interventismo di stato dei suoi colleghi e di altri docenti inviati dalle istituzioni preposte per insegnare nuove metodologie di resistenza, avvolge in un invisibile morbido abbraccio e scopre, risanandole in parte, le piaghe celate di ciascuno dei bulli o delle ragazzine fragili – per problemi di peso e rapporti con l’altro sesso – che egli incontra e prova ad aiutare.
A questo punto può essere evidenziata una serie di elementi “classicamente impiegati” sub specie metonimica, metaforica e/o analogica per illustrare quindi indurre a vedere soggetti ed oggetti inquadrati al fine di far loro acquisire una specifica e diegetica significanza: la semplicità di tale scelta registica diventa una miniera di ipotesi, di interrogativi, di accostamenti, di soluzioni…
Il supplente Henry Barthes, in contrasto con la moda discinta e in deshabillé dilagante nell’istituto in cui insegna, veste impeccabilmente con giacca, cravatta, panciotto e borsa a tracolla, di tonalità scure slanciando ancora di più la sua figura alta e magra osservante il mondo intero sempre dall’alto in basso.
L’abbigliamento fa il monaco e funge da corazza per perpetuare la filosofia del distacco emotivo, costruire una indistruttibile muraglia, proteggendo dalla contaminazione un terribile dolore privato, accantonato senza esser mai rimosso nel suo cuore di bambino, poi di adulto concernente il suicidio della madre legato al ruolo ambiguo del nonno ormai anziano e prossimo a morire (un diario in cui non vi sono più ricordi da scrivere lega quest’ultimo al nipote di cui, nei pochi momenti di lucidità, egli sottolinea l’impenetrabilità caratteriale).
Inoltre tra le battute del Professor Barthes campeggiano come un manifesto: «E non mi sono mai sentito così distaccato dal mondo» e «Il genio esce e piange, ma le lacrime sono tutte per me».
…Con il volto ancora bagnato di lacrime è costretto dal Fato a stringere amicizia con una ragazzina di nome Erica: su un autobus mentre quest’ultima è in ginocchio per soddisfare un cliente richiedente un rapporto orale, Henry piange pensando alla madre, ma l’alternanza veloce e ripetuta del suo primo piano e delle gambe dell’adolescente è appositamente inserita per destabilizzare lo spettatore inducendo a credere che il Professor Barthes di notte abbia ceduto al sesso a pagamento accantonando, per qualche istante, il decantato distacco.
La successiva inquadratura svela la competenza di Tony Kaye soprattutto come regista di svariati video musicali iconici: sullo sfondo di un muro completamento tinteggiato di un violento rosso carminio, due solitudini gli affidano le loro spalle, a distanza, si guardano di profilo e riprese in campo lungo sembrano diventare i protagonisti di un’opera di Andy Warhol (forse non sarebbe scorretto citare anche le cromie edonistiche della “Swinging London” in Blow-Up di Antonioni).
Erica, non a caso, è omaggiata attraverso primi e primissimi piani come una vera icona del sesso patinato: la sua bellezza perfetta anche se ancora acerba (i capelli cortissimi incorniciano grandi occhi da cerbiatta, bisognosi d’affetto ed una bocca carnosa come un frutto proibito), scandalosa e così consapevole delle richieste degli uomini e delle durissime prove della vita, induce a ricordare il prototipo di donna-oggetto a metà strada tra la fragile musa di Warhol e di un’intera generazione morta poi tragicamente, ovvero Edie Sedgwick, ben più nota come la Factory Girl e Liza Minnelli protagonista del film Cabaret.
In netto contrasto con il suo corpo piacente è l’obesa Meredith allieva del Professor Barthes che timida, ma dotata di uno straordinario talento come fotografa, trova conforto, per poco, nelle parole dell’unica persona in grado di difenderla dagli attacchi esterni, inclusi quelli paterni: «Quello che dicono a me è indifferente, ma nessuno deve essere offeso» afferma perentorio Henry.
In un contesto simile, dove il gioco delle opposizioni tra vuoti e pieni (la casa di Herny è completamente spoglia ossia non riempita da un “normale” arredamento), tra masse grasse e magre (Meredith, Erica e lo stesso protagonista), tra i colori e la loro assenza (all’inizio del film tutti i professori monologanti in macchina sulla situazione scolastica appaiono in bianco e nero ad eccezione di Barthes su cui piove, come un antico e sinistro “bruto” una luce rosso sangue), il mantenimento del proverbiale “detachment” vacilla .
Cambiano i punti di vista o meglio ne nascono nuovi, giacché da osservatore distaccato del mondo circostante, Henry si ritrova ad essere oggetto delle attenzioni di Erica e di Meredith, entrambe innamorate dell’unico uomo fino a quel momento incontrato sulla loro strada tormentata capace di renderle piene di grazia e trattarle con la dignità ed il rispetto che si devono ad un essere umano: la prima comincia a prendersi cura come la donna della sua vita cucinando, mettendo in ordine l’appartamento in cui è ospitata, mentre la seconda lo omaggia fotografandolo a scuola di nascosto e regalandogli un particolare ritratto in bianco e nero con il volto cancellato e circondato dal silenzio dei banchi anonimi di un’aula del liceo. Le due ragazze riprendono a vivere adorando un idolo terreno, mettendo in campo le loro virtù per omaggiare un “eroe”, più idealizzato che reale, infatti quest’ultimo braccato, “trapped”, si ribella e ristabilisce l’equilibrio come un demiurgo datore di vita e di morte.
Vi è infatti una specie di limes, di non plus ultra, come antiche Colonne d’Ercole oltre le quali un supplente non può e deve andare: le occasioni in cui le donne/bambine varcano i confini superando le distanze, nell’attimo fermato in un’indicibile gioia, si trasformano in alto dolore: lo stile classico è di nuovo evidente nel mostrare velocemente la deflagrazione ed il successivo ritorno all’ordine.
Mentre Erica sta dichiarando il proprio amore ad Henry Barthes pronunciando tra le lacrime, con voce spezzata «I love you» bussano alla porta gli assistenti sociali per portarla via per sempre da un nido semifamiliare; quando Meredith domandando al supplente se lei gli piaccia, anche fisicamente, si lancia quasi con ferocia in un abbraccio vietato dalla legge americana (secondo la quale è proibito ogni tipo di contatto fisico tra studenti ed insegnanti), una collega di Barthes, assistendo alla scena, lo accusa sbalordita di aver commesso un crimine e di essere un pervertito.
Il regista Kaye si lascia contagiare dal distacco dipingendo la sua tela in maniera innovativa, distanziata, non convenzionale, avviando, ad esempio, la pellicola come se si trattasse di un documentario, per poi non spiegare e non “chiudere” il realismo delle interviste, decidendo di virare ad uno svolgimento nettamente più drammatico.
L’importanza dei messaggi non risiede nella forma, pare dire, ma nel contenuto.
Un discorso elogiativo a parte meriterebbe l’interpretazione di Adrien Brody che malgrado l’imperativo categorico del “detachment” oscilla tra frasi come: «Abbiamo la responsabilità che non finiscano cadendo» ed altre quali: «Io sono una non- persona, tu mi vedi, ma io sono vuoto »: volto scavato, sofferente, affascinante ed irregolare come un Cristo ligneo crocifisso, con un sorriso accennato tra il dolore e l’ironia di maschera tragicomica, abolisce le mezze misure e le ambiguità forse più appaganti e comode.
Il suo sguardo pietoso (pieno di pietas) contempla la varia, vasta e vana umanità, senza l’ambizione folle di salvarla: deve accontentarsi di un piccolo successo come l’amicizia proseguita con Erica presso l’istituto in cui viene accolta per essere assistita, a cui si oppone il personale fallimento di fronte al terribile suicidio per avvelenamento di Meredith che filma prima di morire un messaggio in cui annuncia la sua irrevocabile decisione di “distaccarsi “per sempre dal mondo.
Il supplente Barthes, terminato il proprio incarico, può affiancarsi ad altri colleghi non accademici che operano con distacco: il pittore si allontana costantemente dal suo quadro, il cronista dalle personali emozioni, il drammaturgo (brechtiano) dal proprio tempo e contesto per applicare il Verfremdungs Effekt …
Meteora e cometa, al tempo stesso, il “profeta” Henry Barthes, alle prese con chi resiste o muore dopo aver illuminato il cammino, si distacca, se ne va così come era arrivato.
Mariangela Imbrenda
Scritto da Mariangela Imbrenda il giu 20 2012. Registrato sotto IN SALA. Puoi seguire la discussione attraverso RSS 2.0. Puoi lasciare un commento o seguire la discussione