Magazine Pari Opportunità

Devo tutto alla mia Resilienza

Da Bambolediavole @BamboleDiavole

Abbiamo ricevuto qualche giorno fa una testimonianza che ci ha profondamente toccato per la sua gravità, ma soprattutto per il coraggio, la forza e la determinazione della sua protagonista. La riportiamo per intero, così come è arrivata nelle nostre mani, a partire dalla prima mail che Carmela ci ha inviato.

Vi scrivo per chiedervi la possibilità di pubblicare sul vostro sito la mia storia.
Storia di abusi subiti da parte di mio zio quando ero bambina. Vorrei raccontare la mia storia solamente come un passaggio di testimone ad altre donne che cercano speranza. Il mio vuole essere un messaggio verso tutte le donne che si trovano a ricucire i pezzi a seguito di una storia come la mia, vorrei che la mia storia potesse servire loro ad investire su se stesse e crederci perchè venirne fuori è possibile.
Vorrei dire a queste donne che se si vuole, risalire è possibile, investendo tutta la forza e il coraggio che ognuna di noi ha.
Vorrei però non fosse scritto il mio nome, non cerco e non voglio celebrità, vorrei venisse pubblicato in forma anonima. Sarebbe veramente importante per me, non solo per dare sostegno ad altre donne, ma significherebbe per me chiudere il cerchio dopo una lunga e complicata rielaborazione di tutto quello che ho vissuto. Tengo molto a quanto ho scritto, tengo molto al fatto che altre donne abbiano la possibilità di leggere quanto ho scritto, credo possa essere per loro un’iniezione di coraggio e servirebbe a me per chiudere un cerchio, dare una rilettura con estrema consapevolezza a tutto quello che ho subito.

Come pseudonimo vorrei utilizzare CARMELA in onore, in memoria della ragazzina di Taranto di 13 anni che si è suicidata dopo essere stata stuprata da tre uomini, conoscete la sua storia? Nessuno le credeva, e lei per non impazzire, ripeteva sempre a se stessa “io so’ Carmela“.

Devo tutto alla mia resilienza!!!!!!!!!

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R E S I L I E N Z A… un’unica parola che racchiude forza, coraggio, resistenza e autoriparazione. Una parola così musicale, così elegante che racchiude tutto il mio dolore. Un dolore mutato nel tempo, all’inizio nemmeno sapevo codificarlo perché era troppo potente, poi si è trasformato in una rabbia distruttiva, ora è un dolore in superficie e questo mi permette di guardarlo. Ora posso odiarlo, posso osservarlo, posso scrutarlo dall’alto in basso, posso sfidarlo ogni giorno in una battaglia e in questa battaglia alcuni giorni vinco io, altri giorni mi stende al tappeto. So che lotterò sempre contro il mio dolore, so che mi accompagnerà sempre lungo il mio cammino, so che prenderà forme diverse, si affievolirà ma so che sarà un fedele compagno perché non mi mollerà mai del tutto. Ogni giorno, il dolore lo sento al mattino, mi accompagna durante la mia giornata fino ad augurarmi, con sottile sarcasmo, la buonanotte. Soltanto negli ultimi anni mi permette di distrarmi, di sorridere ma è sempre pronto a ricordarmi della sua esistenza.

Il dolore me lo ha “regalato” mio zio, da lui mi aspettavo doni natalizi, giocattoli per il compleanno, dolci per la befana, invece mi ha donato il dolore.
Ero una bambina e invece di giocare spensierata, sono stata violata e mentre crescevo, cresceva con me il dolore, la confusione, la vergogna, il senso di colpa, lo schifo, la sofferenza che mi lacerava. Quando mio zio mi ha costretto al suo primo abuso, mi trovavo presso la sua casa per le vacanze estive. Immediatamente ho capito quello che stava succedendo ed ho avvertito subito, la necessità di fermare quell’orrore. Così mi sono alzata dal letto nel quale dormivo con lui, quel letto in cui mia zia, la moglie del mio carnefice, mi aveva indirizzata a dormire. Lei, quella sera, aveva deciso di dormire sul divano ed ho pensato “che strano perché vuole dormire lei sul divano, perché non posso dormirci io?”. Mi sono sentita a disagio in quella sua scelta perché non volevo dormire con lui, ho provato a dirlo ma lei non mi ha ascoltata. Mi ci è voluto un po’ di tempo prima di riuscire ad addormentarmi, l’imbarazzo ed il disagio non lasciavano spazio alla rilassatezza per riuscire a prendere sonno. Dopo un po’ comunque mi sono addormentata ma, poco dopo, sono stata svegliata da mio zio… All’inizio ho pensato che, preso dal sonno, non ricordasse che a letto con lui non ci fosse la moglie ma io, sono rimasta gelata non sapevo che fare ma, ad un certo punto, ho preso coraggio e mi sono alzata. Mi sono recata da mia zia, lei però, appena mi ha vista, è rimasta seccata, infastidita e mi ha respinta. Mi ha chiesto che cosa volessi ed io, visto il suo atteggiamento, non ho detto nulla, mi sono scusata per averla svegliata e ho raccontato una bugia, le ho detto che mi ero alzata perché avevo sete. Così ho preso dell’acqua e successivamente, lei mi ha detto di tornare a letto ed io sono tornata a “dormire”. Mentre tornavo nella camera da letto, speravo che mio zio si fosse reso conto di quello che stava facendo e che la smettesse. Quella notte non si è fermato, ha continuato…

Non è stata l’unica volta, altre volte quando mi recavo a casa sua, mi sono ritrovata a vivere quello schifo, quell’orrore, ma non ho più provato a ribellarmi, non sono più riuscita a trovare la forza, mi sembrava inutile, non volevo più trovarmi nella condizione di essere rispedita nell’incubo dopo aver cercato aiuto e  così, mi sono ritrovata schiacciata da quel fardello troppo pesante, pieno zeppo di merda. La mia anima era diventata nera, ero morta dentro, sopravvivevo ma non vivevo. Dopo tanto elaborare, capire, dopo tanto percorso introspettivo e riflessivo, ho capito molto chiaramente che mio zio è stato il carnefice diretto, ma mi ci sono voluti molti anni per riconoscere mia zia come sua complice. Oggi sono arrivata alla tremenda
consapevolezza di aver avuto due carnefici, mia zia, la regista che ha confezionato l’occasione per darmi in pasto al marito e mio zio, l’esecutore diretto. Lei era la mia zia preferita, la mia seconda mamma ero tanto legata a lei, mi fidavo di lei, le volevo un bene sconfinato ma mi aveva venduta, mi aveva tradita. Dura da dover digerire….
Prima che iniziassero gli abusi, non ho mai nutrito simpatia per mio zio, non ho mai mostrato la voglia di abbracciarlo, ho sempre evitato di trovarmi sola con lui. I bambini hanno le antenne dritte più degli adulti, istintivamente riconoscono l’uomo buono, da quello cattivo ma troppe volte gli adulti, non si accorgono di questa loro capacità e il bambino non trovando credibilità, allenta le sue difese, le sue percezioni e finisce per non dare più spazio al suo istinto.

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A 13 anni ho tentato di chiedere aiuto, ho raccontato ad alcune compagne di scuola quello che avevo subito, non ero pronta a raccontarlo ai miei genitori ma volevo aprirmi a qualcuno. Le mie compagne, erano bambine come me, un racconto troppo pesante per loro per poter fare qualcosa a mio sostegno, hanno fatto finta di nulla e le mie parole, sono cadute nel vuoto sfracellandosi a terra. Solo una mi ha parlato, non sono state parole di conforto ma parole di rimprovero. Mi ha detto di non raccontare queste cose perché erano troppe private e che non dovevo dire nulla a scuola, insomma erano fatti miei. Mortificata da quelle parole, ho deciso di non parlarne più con nessuno. Per molti anni, ho taciuto perché non volevo essere più rimproverata, non volevo essere giudicata ed inoltre, non volevo alterare i rapporti familiari, perché mi vergognavo, perché ero confusa. Oggi se penso a quella compagna di scuola, la penso succube di una società omertosa, dove il non voler sapere, il non voler vedere, il non voler sentire, rende chiunque complice del carnefice, un meccanismo ben radicato in lei già solo a 13 anni, giudicante miei confronti cercando di farmi zittire, avevo chiesto aiuto e lei mi aveva detto di tacere. Io ero vittima di un atroce carnefice, lei invece, aveva iniziato ad essere una vittima inconsapevole di un insegnamento sociale, educativo, non mirato al sostegno e all’ascolto altrui ma volto ad ignorare i fatti scomodi. In fondo seppur su due fronti diversi, eravamo entrambe vittime di una negata libertà di scelta e di pensiero, terreno fertile dove poter continuare a coltivare il potere del più forte sul più debole che aveva schiacciato me e che stava schiacciando anche lei.
Durante la mia adolescenza, vedevo le altre ragazzine spensierate, chi più chi meno si impegnava negli studi, erano prese dalle prime uscite, dai primi fidanzatini e poi c’ero io che volevo sparire, volevo morire, quante volte ci ho pensato e ci ho anche provato. Ho iniziato a fare uso di droga e di alcol per evadere con la testa ed ho cominciato a soffrire di disturbi alimentari. Sono ingrassata prima 35 Kg per non “attirare” l’attenzione dell’occhio maschile, tutti quei Kg in più mi servivano per apparire meno attraente e meno “papabile” allo sguardo degli uomini, dei maschi. Per molti anni, sono stata in abbondante sovrappeso poi ho deciso di perdere quei Kg perché non mi riconoscevo, non mi piaceva il mio corpo e sono dimagrita ma, l’ho fatto troppo velocemente ed in modo poco sano. Ancora oggi, che sono magra, il mio rapporto col cibo è molto complicato, non riesco a viverlo, ad assaporarlo senza avere sensi di colpa, o senza attribuirgli i miei successi o i miei fallimenti.

A 17 anni, il dolore non mi dava tregua, i danni subiti erano più grandi di me, incontrollabili ed ingestibili. La mia persona, la mia struttura, il mio equilibrio, era stato polverizzato ancora prima di prendere forma e non sapevo proprio da dove ripartire, da dove ricostruirmi. Non potevo recuperare nulla di quella che ero prima degli abusi, perché prima ero solo una bambina e non avevo fatto in tempo a strutturarmi e recuperare quindi, qualcosa di me stessa. Come può un terreno essere coltivato se prima della semina viene bruciato? Ecco mi sentivo così, i semi di me stessa non esistevano, il mio terreno, la mia struttura psicologica, il mio corpo era stato bruciato ancora prima della semina, impossibile perciò recuperare i frutti. Completamente schiacciata dalla sofferenza, ho tentato il suicidio e sono finita in ospedale per diverse settimane. Ho assunto un numero smisurato di farmaci e detersivi, ero depressa, infelice e volevo farla finita o forse cercavo solo un modo per attirare l’attenzione. Forse volevo solo far capire a chi mi circondava, che stavo male anche se non ero ancora pronta a raccontare il motivo del mio gesto. Avevo toccato il fondo, non sapevo gestire il dolore, non sapevo come e a chi chiedere aiuto e, a dire il vero, non mi era nemmeno chiaro se questo aiuto lo volessi veramente.

samara

Negli anni dell’adolescenza, mi sentivo sola, mi sentivo diversa, non riuscivo a rimanere concentrata a  scuola, sentivo di avere un marchio addosso, una lettera scarlatta e temevo che fosse visibile agli altri. Me ne vergognavo. Quella bambina costretta ad avere in dono il dolore da suo zio, ha per me un volto, ha per me un nome, oggi quando penso a lei, quando mi viene a trovare col il suo aspetto macabro, col suo animo ferito, col tutto il suo dolore, la identifico in Samara Morgan la bambina del film “The Ring”, buttata in un pozzo dove è morta e lungo le pareti di quel pozzo, le sue unghie strappate nei suoi inutili tentativi di arrampicarsi lungo le pareti, per uscire. Solo oggi sono riuscita a darle vita e corpo perché così posso riconoscerla, posso parlarci, posso volerle bene e da quando le ho dato un’ identità, il dolore e la rabbia  hanno preso una forma più costruttiva. A volte Samara rimane ancora in quel pozzo arrabbiata, indifesa e  diventa feroce, mi devasta ma a volte, via via sempre più spesso, riesco ad accoglierla con rispetto, con affetto e le dico che l’ho perdonata perché ho capito non è colpa sua.
Samara è parte di me, una parte che non voglio far vedere a nessuno perché nessuno la capirebbe e per questo io la proteggo, non la racconto ma lei prende forma da sola, si fa conoscere da sé e lei non piace, perché brucia e devasta tutto quello che ha intorno. La definiscono aggressiva, nessuno si domanda se sia un vestito o una maschera, la definiscono fredda, distaccata, strana e per questo Samara si procaccia e si nutre di altra merda per punirsi. Samara si è chiusa al mondo circostante, si è isolata, si è allontanata dalla realtà creandosi una realtà parallela nella sua testa, ha rischiato per questo la psicosi perché ha vissuto troppo di fantasia, di allucinazioni, di immagini vive che non erano reali. E’ stato il suo rifugio, la sua casa dove si è nascosta per anni. Samara anche per questo si sentiva diversa e con estremo coraggio, a piccoli passi, ha iniziato ad uscire da quel rifugio da quella casa, riappropriandosi della realtà ed imparando a distinguere le sue fantasie dalla vera realtà. Era creativa Samara, inventava balle per non raccontare del dolore. Quando le chiedevano per esempio: “ che hai fatto ieri?” non poteva raccontare che ha pensato a come suicidarsi, non poteva raccontare che è stata immersa nel suo dolore, così raccontava gite, incontri, fantastiche giornate e questo nella sua testa, le permetteva di apparire meno strana agli occhi degli altri. Tutti facevano tante cose, io non facevo nulla e mi serviva Samara perché inventava per me, una pseudo normalità e mi sentivo più simile e vicina ai miei compagni. In questo mondo parallelo, Samara è SOPRAVVISSUTA, è rimasta viva ma ha seppellito la mia anima che è stata brutalmente assassinata da quell’uomo che, ancora oggi, se ne va in giro tranquillo forte dell’appoggio dei suoi cari.

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La mia anima è stata sotterrata da Samara, il mio IO più profondo è stato sopraffatto da lei, però sentivo che la mia anima voleva essere resuscitata, batteva i pugni per essere ascoltata, per essere vista. Samara ricacciava la mia anima obbligandola a vivere nel suo tetro e rabbioso rifugio, abituandola a quelle mura, a quella insana casa che le stava stretta ma era troppo spaventata per liberarsi da lei. A poco a poco la mia anima, ha tentato, ha sperimentato le prime uscite lontana da Samara, da quel rifugio e si è accorta che si era persa tante cose e che voleva recuperarle tutte. Oggi Samara torna sempre di meno ad obbligare la mia anima a nascondersi in quel rifugio, il resto del tempo lo trascorre insieme, quasi in sintonia, con quella IO ADULTA che sono oggi. Sono passati tanti anni e nel tempo il dolore è cambiato, non è sparito, la mia anima è graffiata ma ha imparato e sta ancora imparando, a convivere in modo sano con questo dolore, senza  farsi sopraffare ma cercando di gestirlo e cercando di far entrare Samara nella ME ADULTA e SANA e viceversa, per cercare di non essere più così tanto dissociata. Samara è stata il mio alter ego, la mia compagna di fuga, la bambina sofferente che ha dovuto subire, che ha dovuto resistere per non impazzire e ad un certo punto, la bambina Samara, facendo appello a tutta la sua forza, a tutto il suo coraggio si è ribellata.

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Intorno ai 19 anni, sono stata nuovamente messa a dura prova. Non avevo autostima, mi sentivo incapace, ero sofferente, squarciata in due e, a tutto questo, si è aggiunto anche lo stress e la pressione dell’esame di maturità. In quel periodo, ho creduto di impazzire e stufa di sentirmi così, ho raccontato tutto ai miei  genitori che mi hanno appoggiata in ogni mia decisione.
Ho deciso quindi di affrontare di persona mio zio, erano presenti sua moglie, mia madre e mio padre. Da quell’incontro mi aspettavo che mio zio, messo di fronte alla verità, fosse messo all’angolo dalla sua famiglia e che la mia parola quindi, non venisse messa in dubbio. Lui non ha negato, ha ammesso quello che mi aveva fatto ma non era affatto dispiaciuto per quello che mi aveva costretto a subire. L’ho picchiato, gli ho sputato addosso, l’ho insultato, l’ho costretto a chiedermi perdono in ginocchio facendomi baciare i piedi ma il mio stato d’animo, non si è mai alleggerito dopo quell’incontro nonostante io abbia dato sfogo alla mia rabbia contro di lui, il legittimo destinatario.
Successivamente a questo incontro, la moglie ed il figlio hanno giustificato mio zio, definendo il tutto solo semplici gesti d’affetto, riducendo e sminuendo il mio dolore poiché, secondo loro, io ho alterato quei gesti, interpretandoli in un modo sbagliato. Questo loro giudizio, mi ha condannata ad altro dolore perché ai miei occhi, lui è stato salvato e sollevato da ogni responsabilità, io invece sono stata condannata all’incomprensione. A nessuno di loro importava di me, a nessuno di loro interessava capire me e quanto mio zio mi avesse costretta a subire. In fondo agli occhi di tutti, era un bravo uomo, io invece una bambina introversa, timida, emotiva, definita “strana” solo perché particolarmente sensibile ed attenta al mondo circostante, di conseguenza ero io, su questi presupposti, che avevo capito male e agli occhi di molti capitolo chiuso. Di fronte a questo giudizio però non mi sono fermata, ho deciso di non tacere, soffrendo ho raccontato tutto alle persone intorno a lui. Speravo che, alla mia rivelazione, altri bambini venissero tutelati da lui impedendogli di regalare loro il mio stesso dolore ma tutti intorno a lui, hanno preferito guardare altrove, ignorare l’accaduto e puntare il dito contro di me. Ho capito così che quel dolore, non mi era stato regalato solo da mio zio, lui lo aveva agito direttamente ma i suoi amici e parenti giustificandolo, avevano intensificato ancora di più il mio dolore, lo confezionarono al meglio appiccicandosi sopra una coccarda.
Oggi vivo tremando per i suoi nipoti, spero che il figlio seppur girandosi dall’altra parte nei miei confronti, nutri una piccola coscienza, un piccolo dubbio che lo costringa a tenere i suoi figli lontano dal padre, io non ho potuto sottrarli spero lo faccia lui.

Intorno ai 20 anni ho raccontato, ho svelato il segreto, l’ho denunciato, volevo un risarcimento sociale (non di denari) per Samara, ma la mia speranza è risultata vana. La magistratura ha archiviato la mia denuncia perché era passato troppo tempo. In quegli anni si poteva denunciare entro sei mesi dalle violenze subite ed io, ignara di questa legge, ho fatto passare molti anni. La delusione è stata fortissima, ero sicura di vederlo tremare in tribunale.
Per mettere insieme la denuncia, mi sono recata presso una struttura composta da un team di avvocate ed operatrici professionalmente preparate e formate, per questo tipo di situazioni. In questa struttura, ho fatto delle consulenze legali ed ho incontrato diverse operatrici per poter fare la raccolta fatti (che  successivamente doveva essere trasformata in denuncia dall’avvocata). Una di queste operatrici, su un fatto specifico che ho dovuto descrivere, mi ha detto: “questo non puoi dirlo con certezza, non puoi esserne sicura”. Raccontavo, in maniera dettagliata, cosa avessi subito, raccontando atti specifici e lei una professionista, pensavo io, una che sta qui per me, per credermi, pensavo prima di questa affermazione, aveva messo in dubbio le mie parole. Ero talmente abituata ad essere incompresa dalle persone a cui  raccontavo quanto avessi subito, che ho iniziato a pensare anche io stessa che tanto non erano fatti importanti, che tanto non era grave, che tanto era colpa mia. Le sue parole perciò, non sono suonate nuove per me e quindi, non le ho detto nulla ma mi sono sentita colpita ed imbarazzata da quella sua affermazione. Erano presenti anche altre operatrici ma nessuna di loro l’aveva contraddetta, nessuna le  aveva detto: “se lo dice è perché ne è certa”, solo una di loro, ad un certo punto, mi ha guardata con complicità ma non disse nulla. Negli anni successivi ho capito che quella operatrice in quel momento, forse  aveva più considerazione delle altre e quindi, non conveniva loro contraddirla per non subire eventuali rotture di palle. Comunque si procedeva con la stesura della mia denuncia e, per questo, ci furono molti incontri con le operatrici. Le stesse, mi avevano spiegato che la denuncia, prima di essere depositata in Tribunale, doveva essere vista e corretta da un’avvocata di questa struttura ma non è andata così. La  denuncia è stata corretta al telefono con tutti i limiti di questo strumento. Un’operatrice, in mia presenza, ha telefonato all’avvocata ed in questo modo, sono state corrette alcune parti. All’avvocata però, forse all’epoca alle prime armi, sono sfuggiti dei passaggi molto importanti ai quali non ha dato la giusta rilevanza. Innanzitutto i fatti, erano accaduti tutti in provincia di Frosinone e l’operatrice, non essendo avvocata, non sapeva che questo era un dettaglio che faceva la differenza. Sono stata erroneamente indirizzata a depositare la denuncia presso il Tribunale di Roma, dove mi sono recata con i miei genitori ma lì ho scoperto, da due poliziotti, che il Tribunale di competenza era quello di Frosinone. Ero a pezzi per questo disguido, con forza racimolata in ogni angolo della mia mente, del mio corpo, ero riuscita ad entrare nel Tribunale Penale di Roma, Piazzale Clodio, ora altrettanta forza e coraggio, dovevo scovarlo per potermi recare a Frosinone. Lo stesso è stato per i miei genitori. Scoperto l’errore, ho chiamato l’avvocata che mi ha dato conferma, dovevo andare a Frosinone, dove successivamente mi sono recata e dove finalmente, sono riuscita a depositare questa denuncia. A questo punto ero certa, dopo il primo intoppo iniziale, di vedere mio zio in tribunale, di vederlo ammettere le sue colpe ma colpo di scena, la mia denuncia è stata archiviata. L’avvocata non si era preparata bene, gli abusi che avevo subito, risalivano tutti a prima del 1996 e non sapeva che se i fatti risalivano tutti a prima di quell’anno, era inutile denunciare perché, prima del 1996, si poteva denunciare entro sei mesi dagli abusi subiti. Purtroppo era l’anno 2000 quando ho denunciato ed i tempi erano notevolmente scaduti, l’avvocata, non aveva studiato il passaggio del codice penale, che puntualizzasse questo aspetto. Per fortuna dal 1996 la legge è cambiata, non bisogna più denunciare entro i sei mesi, c’è più margine di tempo. Così il risarcimento per Samara è svanito, nessuna delle “professioniste” mi aveva preparata a questa possibilità, io sapevo che potevano condannarlo od assolverlo ma non avevo considerato questa terza opzione. L’avvocata non me ne aveva parlato e nemmeno le operatrici lo avevano fatto. E’ stato un duro colpo, ho pensato che se nemmeno quel posto, quella struttura era stata capace ad aiutarmi, allora ero destinata alla rassegnazione ed ho iniziato a credere che non potevo più reagire in nessun modo. La loro leggerezza nell’ascoltare la mia storia, il mio dolore e la mia sofferenza per non essere riuscita a denunciarlo, mi aveva confusa ancora di più, mi aveva devastata e, nella confusione più auto distruttiva possibile, nella devastazione più profonda, ho deciso di diventare un’operatrice di questa struttura. Ho lavorato fianco a fianco con quella operatrice che durante la raccolta fatti mi aveva detto che non potevo esser certa di quanto raccontavo, ho lavorato con quell’avvocata che nel frattempo era diventata responsabile dello studio legale di quella struttura. Ricordo che qualche anno dopo, la stessa avvocata, aveva fatto un intervento ad un convegno, spiegava come negli anni la legge fosse cambiata, esponeva cosa ci fosse prima del 1996 e cosa fosse migliorato legalmente dopo. Mi sono sentita accoltellata nell’anima, lo aveva scoperto con la mia denuncia, mio malgrado, all’epoca non lo sapeva, mia aveva illusa facendomi credere che mio zio avrebbe subito un processo. Ora invece, se ne stava là a fare la sapientona, a raccogliere applausi e consensi per la sua preparazione e professionalità ma per arrivare a quel livello, nessuno sapeva che aveva distrutto ogni mia speranza di risarcimento per Samara e mi sentivo tradita ed ancora una volta, nessuno si è curato del mio stato d’animo.

Per circa sei/sette anni, sono stata operatrice di quella struttura, nonostante i disastri che quel posto aveva fatto con me, non sapevo dove altro andare, non sapevo in quale altro posto rifugiarmi e per tutte le sofferenze che pativo, sapevo che non ero in grado di prendermi la responsabilità di affrontare altri luoghi. Così ho pensato: “questo è il mio posto, sanno cosa mi è successo, cosa ho subito, so di dover incontrare altre donne che hanno subito la stessa cosa e forse, la mia forza e lo loro, potrà diventare un tutt’uno sollevando me e loro. Ci sono anche le altre operatrici e con loro posso dividere il peso”.
Straordinariamente gli abusi subiti stavano dandomi un ruolo, mi sentivo importante perché aiutavo altre donne e questo mi faceva sentire appagata e finalmente importante per me ed importante per gli altri. Ma dopo alcuni anni, ho capito che quello non era il mio posto, era solo un rifugio, l’ennesimo rifugio nel quale scappare ed evitare il mondo circostante, mi sentivo in una bolla dove continuare a nascondermi. Ad un certo punto, quindi, mi sono sentita pronta per provare ad affrontare il mondo, fuori da quel luogo, così ho mollato quella struttura, me ne sono andata ed oggi faccio altro, un altro lavoro.

In quegli anni che ero operatrice, ho scoperto che esiste un popolo di SOPRAVVISSUTE come me. Troppo spesso è un popolo taciuto e sommerso e noi che siamo le abitanti, sappiamo riconoscere le altre cittadine e tutte ci poniamo la stessa domanda: “ma quante siamo?”. Troppe. Nei nostri occhi si legge il medesimo quesito: “perché a me?”. Perché i nostri carnefici trovano terreno fertile in una società che si ciba di patriarcato, di sopraffazione, di potere, di forza agita su chi è più debole e in questa società quelle criticate, quelle giudicate siamo noi sopravvissute. La società però ci sottovaluta, noi sopravvissute siamo armate di forza, di coraggio ed ogni giorno lottiamo per ribaltare la situazione. Ognuna di noi lotta, ognuna di noi ha la capacità di rimanere in piedi, a testa alta, dritta e fiera. Troviamo conforto dalle altre sopravvissute, ci siamo alleate in una solidarietà, in una sorellanza forte, potente, facciamo squadra, siamo capaci a farlo e ci nutriamo del coraggio dell’altra. Così facendo, troviamo spazio per la consapevolezza e la successiva rinascita e a quella rinascita non rinunciamo più ed è a queste altre sopravvissute, due in particolare, le mie socie, così io le chiamo, dico GRAZIE!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!

In questi anni sono successe tante cose, ho constatato che di dolore si può morire. Mio padre pochi anni fa, è morto d’infarto, all’improvviso sotto i miei occhi, mentre parlavo con lui. Era un uomo in forma, mai un malanno, mai un problema cardiaco, mai problemi sanitari ma un infarto me lo ha portato via. Dopo la sua morte, ho capito che lui non aveva mai accettato quello che mio zio mi aveva costretto a subire e che non ha mai saputo gestire il suo malessere, non era riuscito ad elaborarlo. Io non ho mai visto il suo dolore e neanche quello di mia madre, non ho mai preso in considerazione il fatto che potessero stare male anche loro. Sono stata completamente risucchiata soltanto dal mio dolore senza osservare il loro. Davanti a me, mio padre, non mi ha mai dimostrato la sua sofferenza per non sovraccaricarmi, ma dentro di sé, il suo dolore, la sua non accettazione, sono convinta gli abbia provocato alla fine un infarto o abbia, in buona parte, contribuito a farglielo venire. Dopo la sua morte però, ho deciso e scelto che era tempo di risalire, questo dolore stava distruggendo me e la mia famiglia. Anche mia madre soffriva, è arrivata a pesare 150 kg a causa del malessere provocato dal marito di sua sorella e sono convinta che, in qualche modo questa parentela, l’abbia fatta sentire in colpa. Così, a poco a poco e con alle spalle già qualche anno di psicoterapia, mi sto rimettendo in piedi, ci stiamo rimettendo in piedi sia io che mia madre.

banksy

Oggi che sono una giovane donna adulta, non faccio più uso né di droghe né di alcol, non contemplo più il suicidio, ho scelto di lottare tutti i giorni contro il mio dolore, per dominarlo e perché mi ha bloccata, mi ha chiusa verso ogni forma di emozione. Alla possibilità di un’emozione positiva d’amore, fuggo e scappo perché ho paura, non la so gestire, ma la sfida continua per vincere questo dolore e per permettermi di vivere e di godere di ogni emozione, senza tremare.
Mi viene spesso in mente una frase della prefazione del libro “IL PAESE SOTTO LA PELLE ” di Gioconda Belli che cita: “sono stata due donne e ho avuto due vite”. Io sto vivendo la mia seconda vita, la mia seconda possibilità, la società non mi ha aiutato, non mi ha ascoltato, mi ha voltato le spalle perché è più facile ignorare che sostenere ma io, con forza e volontà, con il sostegno delle sopravvissute, mi sono andata a prendere questa seconda vita, questa seconda possibilità e se sono sopravvissuta devo tutto a me, devo tutto alla mia R E S I L I E N Z A!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!


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