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Le dipendenze, il nuovo libro di Antonella Lattanzi
Devozione è un romanzo che si situa all’interno di una tradizione letteraria ormai consolidata, quella del buco, che ha come capostipite la berlinese Christiane e che passa per maestri quali Andrea Pazienza, GiPi, Irvine Welsh, tanto per citarne alcuni. Devozione si situa in questa tradizione solo per una questione tematica, perché per tutto il resto, invece, lo stile, il punto di vista, la voce, è un’opera innovativa a trecentosessanta gradi.
La storia è quella di Nikita e del suo fidanzato Pablo, due eroinomani poco più che ventenni, lei di Bari lui di Catanzaro Lido che vivono a Roma, dove Pablo è studente fuori sede e risiede in uno studentato e Nikita accollata a lui dopo aver vissuto per strada e aver passato le esperienze più terrificanti possibili. Tutto quello che fanno ruota intorno al buco, a cercarsi la roba quando sono a rota (=in astinenza) e passare da un sert all’altro per il metadone o per analisi epatologiche di sorta. Comunque l’impulso che li spinge ad agire è soltanto quello di soddisfare l’unica necessità vitale che gli è rimasta: quella di farsi. Questo è anche il motivo per cui rapiscono Annette, ragazzetta di origini francesi che loro credono ricca e che pensano di tenere in ostaggio per poi chiedere un riscatto molto alto e sistemarsi economicamente per la causa.
Il romanzo fluisce armoniosamente, sempre che di armonia all’inferno si possa parlare, tra un allucinato tempo presente da incubo che si snoda per lo più per associazioni mentali e una visionarietà alla Munch, per altro citato due o tre volte nel corso dell’opera, e vari flashback, anche questi spesso connessi al tempo presente per associazioni mentali. Il ritmo del parlato è reso compulsivo dalle tante frasi coordinate e ansiogene di cui è composto il romanzo, che gli conferiscono un che di poetico, come una specie di filastrocca dell’orrore che ti tiene incollato alla pagina e ti tira dentro, ti “risucchia”, tanto che in corso di lettura mi sono addormentata e ho sognato che non erano Nikita e Pablo, bensì io e il mio fidanzato, ad aver rinchiuso una ricca punk a bestia francese nel cofano della macchina e che io, come Nikita, non avevo il coraggio di aprire quel cofano per controllare che la poveretta fosse ancora viva.
Antonella Lattanzi sostiene che quest’opera sia il frutto di uno studio antropologico durato anni e condotto tra i tossici di strada e di vari sert. Trovo estremamente difficile credere che non ci sia un forte autobiografismo in quello che viene narrato, proprio nel modo in cui viene narrato, a meno che la Lattanzi non sia una specie di Zelig che empatizza talmente tanto con le persone con cui ha a che fare che ne assorbe caratteristiche fondanti, come in questo caso il ritmo martellante e paranoico di mondi interiori alterati dalle droghe o dalla mancanza di droghe. Comunque non voglio di certo mettere in discussione le parole dell’autrice, il cui talento è, in un caso o nell’altro, fuori discussione.
Mi pare poi degno di nota il modo in cui viene trattato l’argomento anche perché, se ai tempi del mitico Paz o di Christiane, in cui per altro c’era molta più disinformazione in tema di eroina, il buco e tutto quello che gli ruota intorno veniva concepito in una maniera positiva per il fatto di essere la forma di ribellione più estrema e quindi gli eroinomani andavano piuttosto fieri della loro tossicodipendenza, qui invece Nikita, giacché il punto di vista è il suo più che di Pablo, è anche lei fiera della sua tossicodipendenza ricercata e cresciuta con tanta cura, ma anche disgustata dalla gabbia di quella vita assurda in cui lei si è messa consapevole di tutte le conseguenze che avrebbe comportato. È come se avesse una doppia personalità. Inoltre, per il fatto di venire da una famiglia bene smentisce il cliché che l’eroina sia prerogativa di chi ha avuto un’infanzia difficile.
Ho amato molto questo libro e trovo che sia assolutamente molto democratico e non di nicchia perché non è tanto un libro sulle droghe quanto un libro sulle dipendenze, argomento, quest’ultimo, che riguarda chi più chi meno, chi in un modo chi nell’altro, suppongo tutta la popolazione mondiale e amo molto Nikita perché penso che sia l’espediente per imparare ad amare una parte ferita di noi stessi che abbiamo tutti.
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