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Dhaka e Benetton

Creato il 10 maggio 2013 da Danemblog @danemblog
C'è un bellissimo articolo (tradotto) di Kim Bhasin su Huffington Post che racconta tutto quello che è successo. Proverò a sintetizzare, anche sa la notizia è ormai un po' datata e sarà già conosciuta da parecchi

Dhaka e Benetton

da Huffington Post

(ma non è della notizia in sé su cui voglio riflettere). Circa un mese fa è crollata una fabbrica in Bangladesh (Rana Plaza Building è il nome dello stabile), producendo - ad oggi - un migliaio di vittime. Un'enormità, per questo l'accaduto ha fatto il giro del mondo. E poi perché dietro c'è lo spinoso problema della manodopera a basso costo e delle condizioni lavorative al limite dell'umano, in cui si trovano diversi paesi sottosviluppati. Per di più, ad impolpare la notizia, c'era che con quella fabbrica di abbigliamento, avevano rapporti alcuni marchi multinazionali. 
Tra questi, c'era anche Benetton. Erano girate già voci, poi nel corso delle lunghe operazioni di recupero delle vittime, sono state le immagini a far scoprire gli abiti con l'inconfondibile etichetta verde del marchio trevigiano. Dapprima il CEO Biagio Chiarolanza aveva dichiarato che la fabbrica coinvolta non era fornitrice di Benetton: poi di fronte all'evidenza la ditta ha ammesso.
Chiarolanza ha dichiarato ufficialmente che una delle ditte all'interno del Rana Plaza era un loro subfornitore. Praticamente succedeva che Benetton era in rapporti con una ditta indiana, la quale aveva affidato una parte di produzione alla ditta New Wave del Bangladesh.
Benetton aveva interrotto i rapporti con la New Wave un mese prima del crollo per ragioni di tempistiche di consegne, e siccome il rapporto di collaborazione era durato per pochi mesi, non aveva avuto né la necessità né il tempo, di avviare un social audit.
Il social audit è lo strumento con cui le aziende - le multinazionali, per lo più, che hanno una fitta rete di fornitori e collaborazioni in subappalto - procedono alle verifiche approfondite (almeno così dovrebbero essere) sulle condizioni di lavoro, sociali e di sicurezza, dei propri fornitori.
Detto ciò, le polemiche girano intorno ad un paio di questioni: perché la Benetton non ha subito dichiarato di avere rapporti con aziende in Bangladesh e sul discorso proprio del social audit. Secondo alcuni, infatti, il marchio veneto non avrebbe approfondito più di tanto le proprie indagini sulla New Wave, per mera convenienza, visto che altrimenti questioni di policy aziendale (molto accorte alle condizioni dei lavoratori) avrebbero impedito l'instaurarsi del rapporto commerciale.
La mia riflessione però, si sposta da un'altra parte. E verte intorno al come mai su media mainstream italiani - in misura maggiore per alcuni, sempre molto attenti al lavoro ed alle esigenze e condizioni dei lavoratori - non si è fin da subito approfondito l'argomento? E si continui, nonostante le ammissioni ufficiali. Voci sul possibile coinvolgimento di Benetton girano da giorni: il WSJ ne parla per esempio qui, dalla settimana scorso. E allora perché non si è fatta una corposa quanto adeguata, inchiesta giornalistica? Perché l'articolo di riferimento sull'accaduto deve essere uno scritto da un giornalista non italiano su un quotidiano non italiano (traduzione a parte)?
Lo dico con tono polemico, ma senza accuse specifiche, semplicemente per sollevare una riflessione. Forse la crisi dell'editoria è così profonda, al punto che mettersi contro un'enorme macchina pubblicitaria, colossale fonte di sponsorizzazioni da sempre, sarebbe stato per certi versi (pecunia non olet) controprudecente?
Occhio, perché se è così, allora hanno ragione alcuni che parlano di poteri e di controlli, di bavagli e di interessi.
Link:
- le foto di AP che incastrano Benetton
- Il Fatto, a dire il vero, ne aveva parlato il 30 aprile

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