Quando vado in vacanza, non scelgo mai l’All Inclusive.
Implica un modo di vivere la vacanza che mi sembra assurdo, e la cosa che mi turba di più è che la diffusione di questa formula è direttamente proporzionale all’esoticità della meta: prendi un aereo, fai un viaggio di ore che costa centinaia di euro, e poi passi tutto il giorno buttato in piscina, per consumare il più possibile; perché ovviamente se ti allontani dal villaggio o dall’hotel perdi la convenienza dell’offerta.
Ma allora metto su un resort con piscina nel Monferrato, tanto è lo stesso, e almeno si risparmia sul trasferimento.
L’all inclusive è particolarmente popolare nelle località sul Mar Rosso, che sono un’altra mia idiosincrasia, perché sono solitamente popolate esclusivamente da turisti italiani, preferibilmente parrucchiere e meccanici (considerate la media di categoria, sono certa che ci sono meccanici laureati in filosofia e parrucchiere che divorano Hermann Hesse, ma cerchiamo di semplificare).
Non ho niente contro le persone semplici, se vanno in vacanza a Cesenatico non c’è problema. Ma se vanno a Sharm El Sheik o a Marsa Alam, ovviamente scelgono l’inclusive (che, per fare i gaggi che sanno l’inglese, pronunciano All ìnclusive, ignorando ovviamente che non tutti vocaboli della lingua di Albione sono accentati sulla prima sillabe, e infatti si dice All inclùsive), passano otto giorni chiusi in un villaggio pieno di italiani, gestito da italiani per italiani, dove anche il personale locale si è rassegnato a imparare un basic Italian perché i turisti in questione non sono neanche in grado di chiedere un bicchiere d’acqua in inglese, e poi quando tornano raccontano agli invidiosi amici “Ah, lì sono tutti simpatici, parlano tutti italiano, peccato la pasta sia un po’ scotta”.
E la cosa grave è che sono convinti di essere stati in Africa.