E’ un altro calabrese a parlare. E non si vergogna a raccontare nemmeno aneddoti della sua casa d’origine, in quella Catanzaro di cui ha assorbito il dialetto tanto odiato dalla madre. Ma se è vero che ieri i figli del Sud faticavano a superare gli esami universitari perché dovevano stare attenti all’accento, è anche vero che oggi hanno guadagnato pari opportunità in termini di istruzione, con le università sottocasa, ma la mobilità sociale e la meritocrazia sono ormai un ricordo lontano, ancorato agli anni ’60 quando l’ascensore sociale e con lui, anche quello economico, saliva sempre più su. E’ solo un passaggio del nuovo testo di Antonio Catricalà: “Zavorre d’Italia” edito Rubbettino (74 pagine, euro 12). Oggi è un magistrato, è presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, insomma dell’Antitrust, ed è soprattutto un docente esperto di diritto con le idee molto chiare su tutto quello che frena il paese.
In modo molto schietto Catricalà fa un’analisi delle mille “zavorre d’Italia”. Tra caste, dieci, cento, mille albi, ordini professionali, esami di stato, l’Italia corre il rischio non più di restare bloccata, che ormai quello è un fatto usuale da almeno trent’anni, quanto piuttosto di prendere la via del declino. Un discesa senza ritorno, che trascina con se la fiducia dei migliori laureati, le fatiche dei giovani che vorrebbero essere presi in considerazione, la tenacia di chi vuole una possibilità nel suo paese senza dover “chiedere il permesso” per lavorare e produrre. E’ sotto gli occhi di tutti anche, e Catricalà non teme di dirlo, il comportamento di una classe dirigente che usa le ricette elettorali per salire sugli scranni, senza mai passare dalle parole ai fatti. La liberalizzazione, l’apertura del mercato del lavoro, sono le uniche soluzioni per l’Italia, ma a quanto pare nessuno ha voglia di rimboccarsi le maniche.
“Zavorre d’Italia” non ha la presunzione di risolvere i problemi in poche pagine, ma si limita a fare un viaggio all’interno della legislazione nazionale e regionale, che soffoca la concorrenza del Paese più vecchio d’Europa e con una fuga di cervelli dalle percentuali sconcertanti. Forse bisognerebbe guardarsi indietro, rivedere lo stile dei vecchi ’60, e cercare di riproporre quei ritmi a scapito finalmente degli infiniti interressi corporativi che stanno annegando l’Italia: un paese che non sa cambiare.