Chiunque prenderà le redini dello Stato dopo la caduta del sultanato dovrà fare i conti con quello che a prima vista appare un paradosso; da una parte l’Italia che si attesta ancora come uno dei primi paesi in termini di “ricchezza assoluta” (dato continuamente ripetuto da chi è attualmente al governo), e dall’altra un palese e tragico impoverimento. Un paradosso solo a prima vista, perché non c’è nulla di incomprensibile in tutto questo; nel nostro paese aumenta la sperequazione, l’iniqua distribuzione della ricchezza, in sintesi, con una formula che si usava un tempo, “i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”. Le soluzioni per recuperare denari ci sono, basta avere la volontà e la sufficiente indipendenza dai poteri forti; prelievo “patrimoniale” vero, ovvero basato sui grandi patrimoni immobiliari, tassazione dei capitali scudati, taglio delle province* e di altri costi della politica, lotta alla corruzione (di cui nessuno ha parlato nonostante fosse inserita nella famosa lettera dell’Ue, la stessa che ci invitava a mettere mano al sistema previdenziale). Già, la corruzione; la generica formulazione dell’ultimo punto può giustamente lasciare perplessi, ma pensare che non si possa fare niente è forse concausa del fenomeno; il magistrato Piercamillo Davigo una volta si trovava negli Stati Uniti, un suo collega del posto si rivelò interessato alla via italiana della lotta alla corruzione, spiegata poi da una voce autorevole, un ex membro del pool di mani pulite, ma alle spiegazioni di Davigo l’americano diventava via via più perplesso, fino a chiedergli perché ci complicassimo così la vita, infatti negli Usa la lotta alla corruzione passa per uno strumento estremamente semplice: il test di integrità. Un poliziotto in borghese prende appuntamento con un decisore pubblico, un dirigente, un funzionario, gli propone una mazzetta in cambio di un favore, di un appalto, se quello accetta scattano le manette. In Italia tutto ciò al momento non è possibile, immagino per via di alcune norme che impediscono alle forze dell’ordine di indurre qualcuno a commettere un reato, un principio di mondo della serie “l’occasione fa l’uomo ladro”, ma sul quale si può trattare se può aiutarci a scalzare il Ruanda nella classifica della corruzione nella pubblica amministrazione (l’Italia è al 67° post nella classifica stilata dall’organismo Transparency International), inoltre il test non è detto che debba avere implicazioni penali come accade negli Usa, ai fini dell’emergenza corruzione è sufficiente un provvedimento amministrativo, la sospensione dall’attività svolta. Mi sono dilungato, in realtà volevo parlare d’altro, il divario tra ricchi e poveri serviva per introdurre un altro tipo di sperequazione, quella culturale, il fenomeno per il quale il nostro Paese esporta cervelli sempre più preparati e di contro vede crescere il numero di giovani che non studiano, il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno, ma ne parlerò un’altra volta, se mi ricorderò ancora come si scrive.
* Sembra scontato ma non tutti ci arrivano; quando si parla di tagliare le province non si intende eliminare gli uffici o i fondi ad essi destinati, ma la delega ad altri organi elettivi della funzione politica, in pratica quello che si taglia sono solo le poltrone, consiglieri e giunta. Un’obbiezione intelligente riguarderebbe invece il carico di lavoro su regione e comune, e un taglio delle province renderebbe ancora più necessarie norme sullo snellimento burocratico.