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Di Cristina, ragazza strana, alle prese con i metamorfismi

Creato il 21 febbraio 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
marcovaldodi Giuseppina D’Amato. A vent’anni Cristina era una scrittrice di successo. Decise, allora, di trasferirsi a Milano dalla provincia. Prese casa nel quartiere Lorenteggio, in un palazzo vicino alla ferrovia. Quando passava un treno, Cristina sobbalzava alle vibrazioni dei vetri e dei pavimenti.

“Sembra un terremoto!” pensava.

Faticò ad adattarsi. Le prime notti non chiuse occhio. Contò i treni che sfrecciavano e si accorse che ognuno aveva un proprio sferragliamento. Dopo pochi giorni distingueva i rumori rampanti delle frecce dai suoni ferrosi e cupi dei regionali, in movimento da troppo tempo.

“Chissà quante storie sanno i treni?” si domandava, con gli occhi spalancati e la psiche sovreccitata dallo stridio delle ruote sulle rotaie, dallo sballottamento continuo dei vagoni e dai fischi acuti delle locomotive che entravano nella stazione.

Durante le notti insonni, le Fobie, più perfide delle Erinni, assalirono la sua mente e lei, come sempre, si smarrì nel vuoto cosmico e nelle pieghe del tempo infinito. Non sognò i giocattoli che si arrampicavano ai capelli della sua Fantasia e, di giorno, non scrisse.

“Caspita! Sono fottuta! Devo consegnare il romanzo.” pensò.

Una notte mise una camicia da notte rosa e, nel letto,  attese il sonno.

Il sonno non venne e gli occhi rimasero sbarrati a fissare il buio della camera, rischiarato dalle luci della città. A un tratto, un fruscio, simile a un frullar di ali, attirò la sua attenzione.

Scrutò nella stanza, ma non vide nulla. Poi il frullo si fece più vicino e insistente. Fu allora che, accanto a sé, vide un ammasso di piume a grandezza d’uomo. Il piumaggio nero e lucente risplendeva in riflessi metallici violacei e verdi, mentre le punte delle piume sfumavano nel bianco. Spalancò la bocca per urlare, ma la voce rimase in gola, bloccata dal terrore, e la mente smise di pensare. Il piumaggio camminava su zampe rossastre, fra cui spuntava una coda corta, e trascinava un’ala ferita. Razzolava per la stanza a caccia di insetti di cui nutrirsi e, a ogni passo, il pavimento vibrava paurosamente. Mangiò con avidità la frutta nel cestino, infilandovi dentro il becco aguzzo, di un bel colore bruno giallognolo, con alla base una macchia azzurra, unico indizio del suo sesso.

Il pennuto si accanì sui fichi e le ciliegie che Cristina aveva comprato quel pomeriggio. Bevve dal suo bicchiere sul comodino e andò all’altro lato del letto. Sprimacciò il cuscino con becco e zampe. Si distese e avvolse intorno al corpo il lenzuolo, a mo’ di nido. Cristina rimase immobile. Trattenne il respiro e udì solo i battiti del suo cuore che percuotevano le tempie.

Poi regnò l’immobilità del panico.

A un tratto, un grido stridulo ruppe il silenzio vuoto.

“Il falco pellegrino ci attacca!” gridò lo storno.

Allora, ai piedi del letto comparve un’entità oscura. L’ente incorporeo, avvolto in un mantello di raso nero, pareva un arcaico cerusico e leggeva un libro a voce alta.

Cristina si avvide che l’ala ferita era diventata un braccio umano, in cui il medico aveva infilato un ago, collegato a una flebo. Paralizzata nel corpo, priva di voce e volontà, la ragazza fissava la scena che si svolgeva intorno a lei e, incapace d’agire, si lasciò avvolgere dalla litania dell’uomo.

Alla nenia del dottore, che leggeva parole misteriose, i muscoli contratti si sciolsero, il respiro divenne regolare e il cuore smise il tumulto che le aveva sconquassato il petto e percosso le tempie.

Senza rendersene conto, Cristina abbassò le palpebre e accostò la mano al braccio-ala dello storno. Socchiuse gli occhi e non ebbe più coscienza di nulla.

Featured image, locandina spettacolo teatrale su Marcovaldo di Calvino, dalla Rete.


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