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Di Dragonero e della sua moltitudine: analisi dei primi quattro albi della serie di Enoch-Vietti

Creato il 13 dicembre 2013 da Lospaziobianco.it @lospaziobianco

Di Dragonero e della sua moltitudine: analisi dei primi quattro albi della serie di Enoch Vietti Stefano Vietti Sergio Bonelli Editore Luca Enoch In Evidenza Giuseppe Matteoni

L’uscita di Dragonero ha segnato una piccola svolta nella politica editoriale della . Innanzitutto è la prima serie fantasy in assoluto per la casa editrice, genere che Sergio Bonelli non ha mai amato, e inaugura l’inizio della collaborazione con Gamestop (la più importante catena video ludica d’Italia) per la distribuzione del numero zero; questo è un segno di come la Bonelli abbia deciso di allargare i propri orizzonti rivolgendosi a lettori di diversa estrazione culturale rispetto al canonico lettore bonelliano.

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Il progetto Dragonero nasce nel 1995, quando e Stefano Vietti scoprirono di esser accomunati dalla stessa passione per il fantasy e cominciarono a buttare giù idee, sino ad arrivare alla realizzazione del romanzo a fumetti “Dragonero” (apripista anche per la collana dei Romanzi a Fumetti), un tomo di 300 pagine pubblicato nel 2007 e illustrato da Giuseppe Matteoni. Non un debutto folgorante per la creatura di Enoch e Vietti (che all’epoca doveva rimanere uno one-shot, pur se nella narrazione alcune cose rimasero in sospeso): il romanzo era una summa dei tanti luoghi comuni ed espedienti fantasy, giostrati abilmente e resi perfettamente da Matteoni, ma che mancavano di quel “quid” che potesse sopraelevare il prodotto da uscita sporadica a serie vera e propria.
Risale a metà del 2009 la notizia che Dragonero sarebbe proseguito con un secondo romanzo, subito smentita per far posto all’annuncio del varo di una serie mensile dedicata a Ian e soci. Allo stato attuale delle cose, siamo arrivati al quinto numero della collana, partita con una mastodontica tetralogia che costituiva in parte l’originario secondo romanzo.

Il protagonista è lo scout imperiale Ian Aranill, sorta di poliziotto con poteri speciali, a cui vengono affidate svariate missioni in giro per l’Erondàr, la terra di Dragonero. A livello meramente concettuale non ha niente di diverso da un Nathan Never, un Tex o al più recente Saguaro: rendere il protagonista un poliziotto, scout o che dir si voglia, rende la narrazione facilmente “serializzabile” e anche tipicamente bonelliana (tutto lo stuolo di detective ed indagatori sta lì a testimoniarlo). Ad accompagnarlo tre personaggi:

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Gmor l’orco, spalla principale del protagonista, Sera l’elfa, personaggio irriverente e a tratti infantile, e Myrva la tecnocrate, l’affascinante sorella di Ian, personaggio ampiamente legato alla componente steampunk della serie. Un quartetto tutto azione e molto eterogeneo, insomma, che pare costruito ad arte. Difficile non pensare a Tex, Carson, Kit e Tiger Jack, ma se GLBonelli non voleva far altro che omaggiare uno dei suoi romanzi più amati (“I tre moschettieri” di Alexandre Dumas), in Dragonero il quartetto mira ad avere sempre pronta una differenziazione razziale, innanzitutto per rimarcare la stratificazione sociale che il mondo di Dragonero può vantare, ma anche per fungere da elemento narrativo vero e proprio.

La costruzione del mondo di Dragonero è certosina e quasi maniacale: mappe, caste, territori, ordini, regioni, fauna (sia animale che vegetale), morfologia territoriale e linguistica, storiografia. Enoch e Vietti non si sono risparmiati nel cercare di creare un vero e proprio universo il più sfaccettato possibile, conferendo ai protagonisti anche una precisa età biologica.
Nella tetralogia iniziale questo lavoro investe il lettore in tutta la sua ricchezza e, probabilmente, anche in tutta la sua confusione, soprattutto a livello di trama. A tutti i fattori sopraelencati (che fanno da sfondo per la vicenda) si aggiungono missioni segrete, traffici d’armi, popolazioni sottomesse, viaggi in posti esotici, maghi e magie, draghi di svariate specie, mostri, allusioni a complotti nelle stanze del comando, un lungo (forse troppo) flashback sul passato del protagonista, amori finiti tragicamente, laboratori e scienziati, fino ad arrivare a meccanismi con sensori di movimento.

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Come se non bastasse tutto ciò, anche la scansione narrativa vera e propria ondeggia fra vari generi. Sintomatica è la costruzione della storia: si parte con un poliziesco vero e proprio, con mappe catastali e trafficanti d’armi (concetti non propriamente fantasy), si prosegue con una narrazione dalle forti venature sia dark che steampunk, e si sfocia in una epica battaglia finale, con tanto di poetico ritorno a casa.
Ma la cura dedicata a tutto questo melting pot ha forse fatto perdere smalto ad alcuni passaggi narrativi, uno su tutti l’identità della Signora Nera che si intravede sul finire del secondo albo, che può esser tutto fuorché misteriosa. Lo stesso Vietti ha dichiarato che non era intenzione degli autori puntare sulla rivelazione dell’identità dell’antagonista. Ma fino a quando questa non si palesa, il personaggio viene continuamente ricoperto da quell’alone di mistero proprio di questo archetipo narrativo, fallendo però il gioco che di norma si imbastisce in questi casi con il lettore, data l’estrema prevedibilità della vicenda.

La farraginosità del soggetto, dei dialoghi e delle sequenze, uniti alla moltitudine di elementi e personaggi che interagiscono fra di loro, ammazza una lettura che si trascina stancamente sino all’epilogo: in particolare i primi due albi, incentrati principalmente sul flashback, soffrono particolarmente di questi fattori, mentre il terzo e quarto albo risollevano debolmente la situazione data la loro natura più avventurosa e drammatica. Per buona parte della storia si aspetta qualcosa che rompa lo schema, che sorprenda veramente, che soprattutto velocizzi la vicenda, ma sono elementi che arrivano troppo tardi. Ogni particolare è matematico e studiato a tavolino, c’è di tutto tranne forse la cosa più importante: la personalità narrativa.

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E fa specie che la parte più riuscita di una storia che può vantare 376 tavole sia proprio l’appendice finale del ritorno a casa, che di tavole ne vanta 7 soltanto: dal sapore fortemente tolkeniano, è proprio questa sequenza a far intravedere le potenzialità della serie, potenzialità che si riveleranno in seguito rinvigorite da un quinto numero che punta proprio sull’aspetto di vita quotidiana dei protagonisti, offrendo una narrazione molto più pacata ed incentrata sui personaggi, ma soprattutto infinitamente più efficace.

Paradossalmente anche la ricchezza dei disegni iperdettagliati di Matteoni affatica la lettura, rendendola a tratti caotica. Caso forse più unico che raro, sembra quasi che il classico formato bonelliano (una delle trovate storicamente più geniali della casa editrice) non si sposi bene con questo approccio certosino del disegno: difatti il formato

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pare di dimensioni troppo ridotte per ospitare disegni di tale puntigliosità. Un lavoro, quello di Matteoni, peraltro molto discontinuo: la meticolosità con cui vengono ritratti scenari e dettagli spesso viene usata a discapito della caratterizzazione dei personaggi, con primi piani sovente non centrati una recitazione generalmente poco espressiva.
Il passaggio di consegne con Luca Malisan che avviene nel quarto albo neanche si avverte. Ci si accorge che il tratto diventa costantemente più cupo e meno dettagliato, fino a maturare definitivamente nella già citata sequenza finale. Paradossalmente il lavoro di Malisan risulta più equilibrato ed efficace di quello del copertinista (e autore grafico) della serie.

L’esordio come serie regolare di Dragonero in definitiva risulta sbagliato. Poco funzionale introdurre i personaggi principali con una storia in quattro albi, come così appare ardito presentare in un sol botto tutti questi elementi che sicuramente torneranno nelle storie successive, sia a livello di personaggi e tematiche, sia a livello di mere peculiarità di genere (o generi).
In Dragonero sembra mancare quel ‘sense of wonder‘ proprio del genere fantasy, ma sarebbe più corretto dire che ci sono tantissimi elementi che potrebbero farlo scaturire, ma nessuno lo fa in maniera riuscita.

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La sensazione di “tutto e subito” pervade la tetralogia in tutti i suoi aspetti: soggetto, sceneggiatura e disegni. Cosa ancor più preoccupante, il lettore si trova costretto ad “inseguire” la storia più che leggerla, dato che la lettura non risulta mai di facile fruizione, e di certo non perché la trama sia particolarmente contorta: sequenze troppo lunghe, dialoghi ridondanti, il frequente utilizzo di termini dalla fonetica astrusa, una moltitudine di personaggi e situazioni, il tutto peraltro spalmato in 4 mesi, rende la lettura di questa prima tetralogia estremamente faticosa.

Luca Enoch e Stefano Vietti sono forse rimasti prigionieri del loro entusiasmo per una serie in cui credono molto e su cui stanno investendo parecchio: la passione con cui hanno creato mappe, nomi e personaggi è vivida e potente, ed investe il malcapitato lettore che, forse, si limitava a chiedere solo qualche oretta di sano intrattenimento.
Ad onor del vero, il quinto numero (“Il Raduno degli Scout”, di Vietti & Pagliarini) non presenta praticamente nessuno dei difetti sopraelencati (pur se l’apparizione dei ritornanti sembra introdurre un altro, ennesimo, filone narrativo, quello degli zombie).
Probabilmente gli autori devono prendere ancora bene le misure alla ricchezza di un mondo che loro stessi hanno creato, e di cui forse, almeno per questo esordio, sono diventati vittime.

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