Magazine Diario personale

Di due cose ho paura

Da Maddalena_pr

VIVERE, QUANDO NON CI SONO IMPREVISTI, È UNA MAGNIFICA OCCUPAZIONE

Vgu1RUfKT3WN1ZYxSWaR_14672519443_13d8873062_kDi due cose ho paura: della solitudine e di me stessa.
Di non saper capire quando e come intervenire nelle evenienze. Di sbagliare reazione. Essere troppo indulgente o, all’opposto, severa. Allarmista o, al contrario, imprudente. Precipitosa o inerte. Istintiva oppure razionale.
Due sono le mie paure.

Sabato le ho avute entrambe.

Quando un cuore di sette anni si ammala d’endocardite reumatica e una valvola resta un po’ ispessita: si chiude e si apre, fa il suo mestiere e ce la mette tutta. Lascia un rigurgito piccolo, che l’altra parte compensa.
Si esce dalla malattia, si fanno controlli a tempi regolari. Il cardiologo mi riceveva nel suo studio di lusso. Una volta aveva anche una tartaruga nel cortile, o così mi pare di ricordare. Poi divento grande, quei cosi fissati sul petto e stretti da una cinghia fortissima fanno male sulle ghiandole mammarie in formazione. Ma non lo dico, mi vergogno.
Il tempo passa e il cuore è stabile.

Quando un cuore che è stato danneggiato se la cava così bene da finire sui manuali (come il mio): smetti di pensarci.
I controlli si diradano. Le ecografie sono cartellini da timbrare. Avevo altre priorità, altri disturbi. E, se non ne avevo, vivevo. Semplicemente vivevo: vivere, quando non ci sono imprevisti, è una magnifica occupazione.

Ma se un giorno, seduta in macchina per andare a Chamonix, il motore rimbomba dentro, tra le costole. Se un giorno il cuore chiede udienza: chiama sfrontato, scalcia. Se un giorno, senza preavviso né ragione, lo senti e non puoi ignorarlo: quel giorno capisci che qualcosa è cambiato.

Passa una settimana e più. E lui non ha smesso.
Non lo conosco nemmeno, questo cuore, non so nulla di lui: niente. Quand’era malato era dei miei genitori: perché ero bambina, gli apparteneva come gli appartenevo io. Quando sono cresciuta non ho dovuto preoccuparmene. E ho pensato che sarebbe stato sempre così.
“Per quanto ne so, questa valvola potresti anche portartela fino alla tomba”: il mio cardiologo era un signore del sud, elegante nei modi, i capelli bianchi, gli occhiali rettangolari e sottili come la sua figura. Era un piccolo Dio. E deve avere ragione.

Ma quando un organo insiste, non puoi distrarti per molto, non puoi attendere, non puoi scappare: devi andare sotto, a prenderlo. Fare conoscenza.

E siamo lui e io: questo piccolo cuore che quando ero piccola divenne troppo grande. Lui e io, un sabato sera che siamo appena tornati e vorrei solo riprendere la mia abitudine urbana, il senso delle cose, della casa, il quotidiano che mi attende dinanzi. Fare tre lavatrici e disfare i bagagli. Con la mia inerzia insofferente al ritorno.

Sono le nove meno un quarto: il tempo delle madri ha l’ora dei bambini. Le nove meno un quarto sono pigiami e spazzolini. Invece sta sera va diversa: qui in una sala d’ospedale, altra gente abbronzata, vecchi col naso e la schiena ingobbiti dagli anni, parenti che parlano, parlano troppo.
Mathias mi ha portata, tutti e 5 in macchina. Poi ha cercato una pizzeria per far cenare i bambini: mi arriva una foto su WhatsApp. Mi chiede se mi serva qualcosa: “Solo voi.”
La solitudine e me stessa: due paure larghe come pupille nel buio.

Mi fanno un ECG, un ecocardio, alcuni esami. Per un istante penso: voglio essere stupida. Stupida, allarmista, ingenua. Che ho creduto di avere delle palpitazioni e invece sono solo ansiosa.
Quello infila l’ago, prende male, duole. L’avevo capito, non poteva far bene uno che è così acido e che snobba le informazioni che gli do, con un commento: “L’endocardite non è mica una cosa brutta.”

Ma le aritmie ci sono, e la mia insufficienza mitralica non è lieve ma moderata. Il cardiologo è una giovane donna, e vorrei fosse stupida, allarmista, ingenua. Che ha creduto di vedere delle extrasistoli e invece è solo ansia. Che l’insufficienza mitralica è come sempre, solo che lei sovrastima.

Vorrei che tutti, in questo momento, fossero stupidi.

La saletta si vuota, s’inoltra nella sera. Solo una donna, davanti, il braccio bucato come il mio. Accanto a lei il marito e un pacchetto di cookies che offrirà ai miei figli.
Non sono più sola: sono tornati i bambini, mi vengono addosso nel sonno che quasi li divora mentre attendo le dimissioni e le prescrizioni per altri esami da fare. Isabelle mi afferra le gambe, mi cerca, mi chiama. Sarah è rapita dalla farfalla e dai tubicini che ho ancora nel braccio, indica il cappuccio della cannula al braccio della signora: “Ma lei ce l’ha più bello: è rosa. Il tuo è verde.”

Bisogna che me ne ricordi, che chieda un tappo rosa, la prossima volta.

Oppure mai.


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