Negli ultimi anni della sua vita, Palmiro Togliatti sembrò aprirsi a una dimensione religiosa. Un anno prima della sua morte, infatti, diceva: «Abbiamo affermato e insistiamo nell’affermare che l’aspirazione a una società socialista non solo può farsi strada in uomini che hanno una fede religiosa, ma che tale aspirazione può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa stessa, posta di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo».
I problemi cui il leader del Partito comunista italiano fa riferimento sono quelli della pace nel mondo che in quel momento sembrava fortemente minacciata dal ricorso alle armi atomiche, una guerra che avrebbe potuto distruggere l’intero pianeta. Togliatti diceva questo nel 1963 a Bergamo, la città di Giovanni XXIII, in un discorso su Il destino dell’uomo, un tema certamente insolito nel dibattito politico e particolarmente in quello comunista. Il fatto che Togliatti dicesse queste cose nella città del papa ha spinto qualcuno a ritenere che ci possa essere stata una correlazione, una corrispondenza, con il pensiero di Giovanni XXIII il quale infatti, meno di due settimane dopo, avrebbe pubblicato l’enciclica Pacem in terris, in cui toccava lo stesso argomento.
In realtà, alcuni aspetti porterebbero a escludere questa ipotesi, ma non può essere negata la riscoperta di un senso religioso della vita da parte di Togliatti il quale, tra l’altro, nel discorso di Bergamo si esprime in maniera abbastanza esplicita. A questo proposito, infatti, egli sostiene che sbaglia chi ritiene la religione definitivamente superata dal progresso scientifico. «Per quanto riguarda gli sviluppi della coscienza religiosa» dice, «noi non accettiamo più la concezione, ingenua ed errata, che basterebbero l’estensione delle conoscenze e il mutamento delle strutture sociali a determinare modificazioni radicali. Questa concezione, derivante dall’illuminismo settecentesco e dal materialismo dell’Ottocento, non ha retto alla prova della storia».
Giuseppe Vacca, storico delle dottrine politiche e presidente dell’Istituto Gramsci, vede in questo una radicale revisione del pensiero di Togliatti riguardo alla religione. Scrive infatti sull’Unità del 27 marzo 2013 che «lasciando cadere la visione illuministica e marxista del rapporto fra religione e modernità, egli affermava l’autonomia, l’irriducibilità e la positività del fatto religioso».
Essendo il fatto religioso “irriducibile”, appare poco probabile che le parole di Togliatti potessero avere semplicemente una finalità politica, come poteva essere la ricerca di una convergenza tra cattolici e comunisti. Tra l’altro, la correlazione tra l’insegnamento di Giovanni XXIII e la dottrina politica togliattiana è apparsa, agli studiosi più attenti, una forzatura. Diceva Francesco Mores, nel corso di un seminario tenuto a Bergamo nella ricorrenza dei cinquant’anni del discorso di Togliatti in quella città: «Il mito di un rapporto diretto tra il discorso di Bergamo e l’enciclica di Roma fu fissato in un libro-intervista che il penultimo segretario del Partito comunista italiano, Alessandro Natta, pubblicò con Alceste Santini nel 1989. Il libro si intitolava I tre tempi del presente e fu stampato dalle Edizioni Paoline». In questa intervista, Natta sostiene: «Io credo che Togliatti fosse in possesso di informazioni assunte da canali apertigli, suppongo, dalla lunga amicizia con don Giuseppe De Luca, molto introdotto nei vertici vaticani del tempo e amico personale di papa Roncalli».
La lettura del discorso di Bergamo come presupposto per una piattaforma politica comune tra comunisti e cattolici è un operazione posticcia, volta a legittimare l’idea di Berlinguer del compromesso storico o la creazione di un partito unico che accogliesse politici ex-comunisti ed ex-democristiani, sopravvissuti alla prima Repubblica. In realtà, niente di tutto questo interessa Togliatti nel 1963; al contrario, egli vuole paradossalmente rimarcare una distanza critica tra il movimento comunista e la Chiesa cattolica. Diceva a Bergamo: «Noi abbiamo sempre respinto i tentativi di auspicare un avvicinamento tra comunisti e cattolici». La preoccupazione di Togliatti era piuttosto quella di rispondere all’accusa di volersi sostituire alla Chiesa, molto ricorrente in quegli anni: «Alle volte, però, ci sentiamo dire, in tono di accusa, che siamo anche noi una religione, anzi, persino una chiesa».
In parole povere, questa apertura di Palmiro Togliatti non può essere considerata una banale strizzatina d’occhio al mondo cattolico da parte del capo dei comunisti. Se non in un’istanza politica, dove aveva origine, quindi, questa apertura? Togliatti dice: «Eccoci così di fronte alla terribile, spaventosa “novità”; l’uomo, oggi, non può più soltanto, come nel passato, uccidere, distruggere altri uomini. L’uomo può uccidere, può annientare l’umanità. Mai ci si era trovati di fronte a questo problema, se non nella fantasia accesa di poeti, profeti e visionari. Oggi questa è una realtà. L’uomo ha davanti a sé un abisso nuovo, tremendo. La storia degli uomini acquista una dimensione che non aveva mai avuto. […] Di fronte alla minaccia concreta della comune distruzione la coscienza della comune natura umana emerge con forza nuova».
La “scoperta” fatta da Togliatti consiste nel rischio “concreto” che il male possa essere il definitivo destino dell’uomo e del mondo intero. Di fronte a questa “spaventosa novità”, si eleva dalla coscienza un grido, «per la salvezza della nostra civiltà, per impedire che il mondo civile venga spinto sulla strada della distruzione totale». Non può essere questo – protesta Togliatti – “il destino dell’uomo”. È questo che spinge Togliatti verso una visione religiosa: l’uomo posto di fronte alla realtà ultima, al suo destino. Di fronte a ciò, essere cristiani o non esserlo c’entra poco. Il senso religioso non interessa soltanto chi ha aderito alla fede, a una verità soprannaturale. Anzi, può esserci anche una religiosità puramente umana. È questo che probabilmente intendeva Togliatti con l’espressione: «Si può quindi dire che la nostra è, se si vuole, una completa religione dell’uomo».
Come abbiamo visto, si è cercato di trovare nel discorso su Il destino dell’uomo una corrispondenza col magistero di Giovanni XXIII. In realtà, le parole di Togliatti sembrano fare eco piuttosto al pensiero dell’arcivescovo della diocesi ambrosiana, dove appunto quel discorso fu pronunciato nel ’63; sembra cioè richiamare più propriamente una lettera pastorale di Giovanni Battista Montini del ’57 intitolata Sul senso religioso, dove si definisce questa religiosità umana «l’inclinazione dell’uomo verso il suo principio e verso il suo ultimo destino».
Non può essere malvagia la natura di quel Destino che domina l’esistenza umana; Togliatti, per esempio, non è disposto ad accettare che lo sia. L’uomo, ci dice, è persona; perciò, tutta l’azione degli uomini deve tendere «a quel pieno sviluppo della persona umana che è la meta di tutta la storia degli uomini». In quegli stessi anni, a partire dalla lettera pastorale di Montini, anche don Luigi Giussani sviluppava il tema del senso religioso; lo tratterà nelle sue lezioni di scuola di religione al Liceo Berchet di Milano che saranno poi pubblicate in un fortunato libro dal titolo omonimo. Il senso religioso è ritenuto il testo più importante di questo sacerdote ambrosiano, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione. Riprendere il pensiero di don Giussani è interessante in quanto rivelatore del nesso profondo tra senso religioso e senso della storia, che sembra essere la vera questione posta da Palmiro Togliatti.
In un famoso intervento, tenuto ad Assago nel 1987, su invito della Democrazia cristiana lombarda e particolarmente del segretario di allora, Bruno Tabacci, don Luigi Giussani dice che «la politica, in quanto forma più compiuta di cultura, non può che trattenere come preoccupazione fondamentale l’uomo», non può avere come interesse finale che il destino dell’uomo. Senso religioso e senso della storia non possono essere disgiunti, perché «la cosa più interessante è che l’uomo è uno nella realtà del suo io» – continua don Giussani.
Ad Assago il fondatore di CL dice: «Che cosa determina, cioè dà forma a questa unità dell’uomo, dell’io? È quell’elemento dinamico che attraverso le domande, le esigenze fondamentali in cui si esprime, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo. Brevemente, io chiamo “senso religioso” questo elemento dinamico che, attraverso le domande fondamentali, guida l’espressione personale e sociale dell’uomo; la forma dell’unità dell’uomo è il senso religioso. Questo fattore fondamentale si esprime nell’uomo attraverso domande, istanze, sollecitazioni personali e sociali».
Le parole di don Luigi Giussani illuminano il pensiero di Togliatti. Il quale aveva creduto per tutta la vita che l’ideale comunista potesse generare e assicurare questa unità. Egli non ne parla esplicitamente, ma si comprende la personale consapevolezza della perdita di questa unità e la sua preoccupazione per i rischi connessi alle divisioni che si erano venute a determinare all’interno del mondo comunista. E si tratta di rischi, come vedremo, non di poco conto. Intanto sorprende che Togliatti, con la sensibilità che gli è propria, giunga allo stesso punto che coglie don Giussani quando dice che «la forma dell’unità dell’uomo è il senso religioso». Il leader comunista aveva affermato che questo ideale unitario «può trovare uno stimolo nella coscienza religiosa stessa».
A quali rischi allude Palmiro Togliatti nel discorso di Bergamo? Lo dice: lo sviluppo delle armi distruttive. Ma bisogna aggiungere che non può essere la bomba atomica la “spaventosa novità” cui fa riferimento il leader comunista. L’atomica, in quel momento, non era una novità; era un sistema d’arma vecchio, ormai, di vent’anni. Nel momento in cui Togliatti interviene a Bergamo, nel mondo sono già esplose oltre 550 bombe atomiche; due delle quali impiegate, come è noto, su obiettivi civili giapponesi durante l’ultimo conflitto. Togliatti stesso vuol farci capire che non si riferisce a questo, ma piuttosto a minacce “che vengono da un recente passato”. Cosa fosse avvenuto nel “recente passato” il mondo lo scoprirà poco tempo dopo.
A pensarci bene, non potevano essere gli arsenali atomici delle due superpotenze USA e URSS a preoccupare Togliatti. Si era già visto anzi, con la crisi di Cuba, come la responsabilità dei rispettivi governi riuscisse, con ampi margini di sicurezza, a “controllare” le tensioni legate alle armi nucleari. Quale “novità” era dunque intervenuta? Per rispondere a questa domanda occorre fare un passo indietro di dieci anni.
Nel 1953, Eisenhower, presidente degli Stati Uniti, nel corso del discorso sullo stato dell’Unione, aveva affermato che per porre fine al conflitto [in Corea], era determinato a sganciare la bomba atomica sulla Cina. In una successiva conferenza stampa, il presidente degli Stati Uniti, in maniera del tutto irresponsabile, si lasciò andare a espressioni ancor più incredibili, con le quali dichiarava di non capire per quale motivo non si dovessero usare le bombe atomiche «alla stregua di una pallottola o di qualsiasi altra arma». Scrivono Jung Chang e Jon Halliday in Mao, la storia sconosciuta: «La minaccia era musica per le orecchie di Mao, il quale aveva la scusa per chiedere a Stalin ciò che più desiderava: le armi nucleari. […] A seguito delle considerazioni di Eisenhower sulla possibilità di ricorrere alla bomba, Mao inviò a Mosca il più illustre dei suoi scienziati nucleari, Qian San-qiang. Il suo messaggio si poteva sintetizzare così: dammi la bomba e non sarai trascinato in una guerra nucleare con gli USA». Stalin non voleva che Mao entrasse in possesso della bomba atomica. Ma Stalin, il mese successivo, morì. A questo proposito, Jung Chang e Jon Halliday insinuano che «Mao può aver contribuito in qualche misura all’infarto di Stalin». Ma questa è un’altra storia.
Alla guida del Partito comunista sovietico succederà Nikita Chruščёv, al quale nella sua semplicità contadina sembrò un affare offrire a Mao la bomba atomica, in cambio dei prodotti agricoli con cui la Cina si impegnava a rifornire il famelico impero sovietico. La scrittrice Jung Chang, che ai lettori di questo blog è già stata presentata in un precedente articolo, e suo marito Jon Halliday, autori della citata opera su Mao Zedong, scrivono che nel dicembre del 1955 giunse la notizia che i sovietici «si impegnavano a prestare il loro aiuto per installare in Cina tutto il processo dell’industria nucleare». Chruščёv non aveva idea di quanto fosse pericoloso che Mao disponesse di armi nucleari. Perché lo scopo del leader cinese non era quello di disporre della bomba come deterrente, come era per americani e sovietici. Il suo obiettivo era quello di usare davvero la bomba atomica. In Mao, la storia sconosciuta, gli autori raccolgono la confidenza di Piero Ingrao, presente nel 1957 a Mosca ai festeggiamenti per i quarant’anni della rivoluzione bolscevica. Invitato a pronunciare pubblicamente un proprio testo scritto, come avevano fatto tutti gli altri relatori, Mao protestò: «Non ho un testo. Voglio poter essere libero di parlare a mio piacimento». Secondo Ingrao, le inattese parole del leader cinese raggelarono il pubblico presente. Disse Mao: «Pensiamo semplicemente a quante persone morirebbero se scoppiasse la guerra. Al mondo ci sono due miliardi e settecento milioni si persone. Se ne potrebbe perdere un terzo o un po’ di più, magari la metà. […] Prendiamo il caso estremo, ne muore la metà e l’altra metà sopravvive; l’imperialismo, però, sarebbe raso al suolo e tutto il mondo diventerebbe socialista».
Commentano Jung Chang e Jon Halliday: «Mao dava l’impressione non solo di non essere preoccupato per lo scoppio della guerra nucleare, ma di giudicarla favorevolmente». Come se non bastasse, il soggiorno moscovita mise in testa a Mao Zedong un altro diabolico piano: ottenere dall’URSS i sottomarini nucleari. Mao dislocherà alcuni di questi nell’isola albanese di Saseno, nel punto più vicino alle coste italiane, accarezzando l’idea apocalittica che un giorno, a partire da quel punto vicino alla Puglia, tutto il mondo che nella sua devastante follia chiamava “l’imperialismo” sarebbe stato “raso al suolo”.
Che fosse questa la reale preoccupazione di Palmiro Togliatti lo possiamo capire tra le righe di un suo documento di straordinaria importanza: il Memoriale di Yalta, abbozzato nell’agosto del 1964, col quale intendeva presentarsi da Nikita Chruščёv. Il Memoriale riassumeva appunto i principali argomenti da esporre al capo del Cremlino, tra i quali “sul modo migliore di combattere le posizioni cinesi”. Togliatti avrebbe voluto che Mosca si impegnasse a «un certo rispetto per l’avversario», senza esasperazioni verbali e condanne generiche «a differenza di ciò che fanno i cinesi». Alle minacce della Cina maoista, secondo Togliatti, si era risposto in maniera inadeguata, «con una polemica ideologica e propagandistica», anche se – lo riconosceva – alcuni importanti passi avanti erano stati compiuti «dall’Unione Sovietica (firma del patto di Mosca contro gli esperimenti nucleari, viaggio del compagno Krusciov in Egitto, ecc.), ed essi sono state delle vere e importanti vittorie conseguite contro i cinesi».
Profondamente amareggiato, Togliatti commenta: «Noi giudichiamo con un certo pessimismo le prospettive della situazione presente, internazionalmente e nel nostro Paese. La situazione è peggiore di quella che stava davanti a noi due-tre anni fa». È una situazione che interpella non soltanto la politica ma l’uomo in quanto tale, la sua coscienza. Che fare? Innanzitutto, è necessario il «richiamo dei tecnici sovietici dalla Cina», interrompendo così l’assistenza al progetto dell’atomica cinese. Oltre ciò, Togliatti intendeva rivolgere a Chruščёv un invito ad aprirsi alla comunità cristiana. E anche qui non come “puro espediente” per ottenere un consenso politico da parte “delle masse”. Ma perché è un bene per il destino dell’uomo fare appello alla sua coscienza religiosa. Dice che «non ci serve a niente la vecchia propaganda ateistica» e che il problema religioso «deve essere posto in modo diverso che nel passato».
Queste erano le questioni che Palmiro Togliatti intendeva portare all’attenzione di Chruščёv. Ma non riuscì a consegnare il suo Memoriale. Morirà improvvisamente a Jalta proprio mentre rifletteva su queste cose e attorno a quest’ultima domanda sul “destino dell’uomo”. Era il 21 agosto del 1964. Poche settimane dopo, Mao Zedong farà esplodere la sua prima bomba atomica.
Le riflessioni di Togliatti inducevano, come abbiamo visto, a un profondo pessimismo. Erano riflessioni che scaturivano dall’amara considerazione dell’inevitabile deteriorarsi dei rapporti umani e delle spaventose prospettive che ne derivano. Era però un’amarezza non priva di una sottile speranza. Nel suo discorso a Bergamo sul destino dell’uomo, egli aveva con discrezione inserito un riferimento al Salmo 127: «Nisi Dominus aedificaverit…»; se il Signore non costruisse, tutto sarebbe vano.
Può il senso religioso dell’uomo costruire, edificare, unire tutti gli uomini? Nel suo intervento ad Assago, don Luigi Giussani concludeva: «Una cultura della responsabilità deve mantenere vivo quel desiderio originale dell’uomo da cui scaturiscono desideri e valori: il rapporto con l’infinito, che rende la persona soggetto vero e attivo della storia. Una cultura della responsabilità non può non partire dal senso religioso. Tale partenza porta gli uomini a mettersi insieme. È impossibile che la partenza dal senso religioso non spinga gli uomini a mettersi insieme».
È una partenza che, come ha osservato Giuseppe Vacca, si traduce in positività. E che diventa tale nel momento in cui, secondo un’altra espressione di don Giussani, favorisce «l’insorgere di movimenti» che strappano dall’astrattezza ideologica, diventando «segno di vivezza, di responsabilità e di cultura, che rendono dinamico tutto l’assetto sociale».