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Di là dall’arcobaleno

Da Zarizin

Di là dall’arcobaleno«E quello che cos’è?» chiese Piero additando un vecchio proiettore abbandonato in fondo allo studio, sul davanzale della finestra. Il vecchio scienziato si riebbe dalla lettura, come ridesto. Raccolse gli occhiali di dove gli si erano aggrovigliati sul fondo della pancia e levò lo sguardo miope dietro l’indice ancora teso del ragazzo. «Ah, bambino mio» rispose lo scienziato «certo non hai memoria di quel tipo di congegni. Son cose del passato, cose da dimenticare, di questi tempi». E cosí dicendo sprofondò nuovamente il naso fra le pagine del vecchio tomo impolverato, riprendendo la lettura. Piero era abituato ai toni del vecchio scienziato. Finalmente abbassò il dito, e, per non saper che farci, se lo mise su per la narice.

«Piove,» si accorse Piero «di nuovo». Lo scienziato fu momentaneamente distratto dalle parole del ragazzo. Questi lo guardò incuriosito col dito ancora su per il naso, ma già i radi ricci dell’uomo si eran nascosti fra le pagine del libro. «È la primavera» spiegò infine senza distogliere lo sguardo. Piero riprese a grattarsi annoiato l’interno delle narici, cominciando a passeggiare per lo studio. Allora guardò di nuovo al vecchio proiettore abbandonato sul davanzale. «Insomma non me lo dice,» insistette Piero «che cos’è quel marchingegno, signor professore? Con la pioggia si guasterà, lí di fuori». Lo scienziato inforcò nuovamente gli occhiali e volse lo sguardo alla finestra, come a considerare le parole del ragazzo. «Quello,» disse sfilandosi le lenti di sul naso «non è che un fallimento, bambino mio. Cose d’altri tempi, che è meglio lasciare dove stanno. Ora i giorni son cambiati, e la scienza non può star appresso alle ferraglie del secolo scorso e alle nostalgie dei vecchi sentimentali». «Ma a che serviva?». «Quello a cui serviva ormai non importa, già che ora è bell’e arrugginito e non funziona piú». Piero se ne stette in silenzio, piú annoiato che deluso per non avere avuto la risposta, e di nuovo prese ad andar su e giú per lo studiolo. «Occupiamoci della nostra biologia, ora, che dici? Vien certo piú utile che quel trabiccolo». «Sí, signor professore». «Lascia che dia in pace un’occhiata al mio vecchio manuale di botanica. Non ci vorrà che un minuto».

Piero contò con la punta delle dita i tomi polverosi dello studio, disposti in alte pile lungo le pareti, giocando con le scie lasciate sulla polvere. Quando arrivò alla finestra, lo scienziato se ne stava ancora a brontolare sul suo libro. Piero puntò i gomiti sul davanzale interno e si prese le guance coi palmi delle mani, fissando il vecchio proiettore attraverso il vetro appannato dalla pioggia. Stette a osservare le bobine dondolare inermi contro il debole vento piovano, appannando il vetro col fiato e spannandolo con il retro della manica. Dovettero passare cinque minuti senza che né Piero né lo scienziato dicessero una parola. Finalmente Piero si riebbe dai suoi pensieri e notò le gocce stanche fare a gara lungo il vetro della finestra. «Signor professore,» disse voltandosi «credo abbia smesso. La pioggia, dico». Il vecchio scienziato aveva il libro abbandonato sul palmo della mano, e lo sguardo perso alla finestra. «Vedo,» disse solo. Voltò alla pagina seguente e prese stancamente per la porta. «Andiamo,» lo udí Piero chiamare dal corridoio «ho ritrovato il passo che cercavo». Il ragazzo si voltò a finire di spannare la finestra. Il sole era sbucato di dietro le nuvole grigie, pitturando il cielo ad acquerello, lontano, sopra i palazzi. «Il sole!» disse Piero. Allora d’un tratto le bobine presero a cigolare piano piano, girando su sé stesse come animate dalla luce solare. «Andiamo!» insistette lo scienziato dal corridoio. Ma Piero aveva già raggiunto l’apertura fra le ante, in piedi sulla sedia, e spalancava la finestra. «Professore!» strillò «Il sole! Il suo congegno ha ripreso a funzionare!». Le goccioline volatili si agitavano sparse per il cielo, componendosi contro i raggi solari in un ampio arco color pastello. «Lèvati di lí, ho detto!» ordinò pallido lo scienziato, apparso in un istante alla porta dello studio. «Funziona,» gridava Piero «funziona, funziona!». L’uomo lasciò cadere il libro al suolo, e raggiunto il fondo dello studio prese il ragazzino per la cintola e serrò la finestra battendo le due ante sull’infisso. «Avevo detto: lèvati di lí» pronunciò debolmente lo scienziato. L’arcobaleno, di sopra i tetti, si fece piú nitido.

Piero si trovò lasciato per terra a asciugarsi il naso con il dorso della mano, mentre lo scienziato si sedeva sulla sedia prendendosi le tempie fra le dita. Le ante della finestra si apersero d’un tratto, spinte dal soffio del vento. Le bobine giravano ancora, macinando, come i congegni di un’antica locomotiva. Solo allora Piero levò lo sguardo da terra e si accorse che lo scienziato si piangeva muto fra le dita. Il bambino si mise in piedi a raggiungere l’altezza dell’adulto, sorsando di quando in quando con il naso.

Piero lesse: «Sonni». Lo scienziato non piangeva piú, ma non rispose. «Sonni,» ripeté Piero «è scritto sul suo congegno». Il ragazzino si arrampicò fino alla finestra, sporgendo la testa sul proiettore. «Sonni,» insistette «è scritto anche su tutti i suoi libri, signor professore». «Niente,» mormorò lo scienziato «per oggi la lezione è terminata, Piero. Vai a casa». «Ma io voglio sapere quel che fa la sua invenzione!». «È rotta, Piero. Non fa nulla: gira a vuoto». Il ragazzino sbruffò e scese dal davanzale. Raccolse i suoi libri di biologia e fece per uscire dallo studio. «Lo sa,» disse al profilo muto dello scienziato «che tanto lei a scuola non piace a nessuno? Mio padre dice che lei è solo come i vecchi, e che morirà scontento. È antipatico, e come insegnante di sostegno non mi piace affatto, e credo che mio padre abbia ragione». Le bobine del proiettore smisero finalmente di macinare. Cigolarono ancora un poco e si arrestarono del tutto. Piero prese la maniglia e diede un passo nel corridoio. «Lo sai,» lo chiamò lo scienziato prima che il ragazzo scomparisse dietro la porta «che cosa c’è di là dall’arcobaleno, Piero?». «Non mi importa,» disse il ragazzo «voglio sapere a che cosa serve il suo congegno». Lo scienziato si levò senza mostrare il volto e si sporse dalla finestra. «Serve a catturarlo,» disse guardando al cielo «a catturare l’arcobaleno». Il ragazzo, non visto, alzò le spalle con una smorfia. «Sonni era il soprannome di mio figlio: Samuele. Era un bambino come te. Il proiettore era il suo gioco preferito. ‘Papà,’ mi diceva ‘cosa c’è di là dall’arcobaleno?’». «E cosa c’è?» chiese Piero. «Ogni pomeriggio buono di primavera ce ne stavamo a questa finestra, cercando di catturarlo quando quello spuntava di là dai tetti. Ma era sempre troppo veloce per noi. Samuele mi diceva: ‘vedrai Papà, perfezionerai la tua macchina e alla fine lo acchiapperemo’». «E allora?» disse Piero «ce l’ha fatta?». «’Vedrai, Papà,’ mi diceva ‘ci riusciremo’». Lo scienziato si sporse dalla finestra e spense la batteria solare del proiettore. «C’è riuscito solo Samuele,» sorrise l’uomo «un pomeriggio di sette anni fa, che non era neppure piovuto». «E che se ne fa suo figlio di star di là dall’arcobaleno?» chiese Piero. «Tu che ci faresti?». «Io non ci farei proprio nulla, signor professore. A me sembran solo stupidaggini». Lo scienziato sorrise tristemente e indicò al cielo col dito puntato. «Di’, Piero,» disse «ti va di catturarlo insieme a me?». «L’ha detto lei che non funziona, che non serve già piú a niente». Lo scienziato si volse verso il ragazzo. «Anche se glielo dicessi,» continuò Piero «mio padre non crederebbe mai a questo mucchio di fesserie, e mi farebbe tornare comunque da lei. Verrò ancora giovedì. Ora la saluto». «È un peccato che non ti vada,» rispose lo scienziato «sai, Piero, oggi pare proprio la giornata adatta per cacciare arcobaleni, la giornata perfetta». Il ragazzo non rispose nulla. Allora lo scienziato fissò lo sguardo al cielo per non doverlo distogliere piú. «Chiedi scusa a tuo padre da parte mia,» disse «credo che giovedí non ci vedremo. Con un po’ di fortuna, se il tempo tiene, ci sarò riuscito anch’io per giovedí. Ci sarò riuscito anch’io come Samuele, ad andar laggiú, sopra i tetti, di là dall’arcobaleno».

Emiliano Garonzi


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