Magazine Arte
© Fulvio Bortolozzo
Ieri sera ho visto The Tree of Life di Terrence Malick. La mia unica esperienza precedente con questo autore fu il film La sottile linea rossa (1998). Più di allora, mi sono ritrovato decisamente spiazzato dalla deriva visionaria di Malick, ormai senza più alcun argine narrativo in grado di contenerla. Non sto a ripetere la trama del film, peraltro piuttosto intricata, ma mi limiterò a sottolineare alcuni punti che ritengo decisivi nel farmi considerare non riuscita quest'ultima, pur visivamente seducente, Palma d'Oro di Cannes. A mio avviso difatti, se paragonato agli unici esempi storici che mi paiono possibili — ossia 2001,Odissea nello spazio di Stanley Kubrick (1968) e Koyaanisqatsi di Godfrey Reggio (1982) — Malick non raggiunge l'indispensabile sintesi estetica tra intenzione e realizzazione, come invece fecero gli autori di quei due capolavori assoluti della cinematografia mondiale di tutti i tempi.
Temo che una sua certa ossessione religiosa di matrice protestante (la grazia posta in antitesi alla natura come scelta puramente spirituale), unita alla necessità di descrivere la claustrofobica vita della middle class americana degli anni '50, tutta chiesa e lavoro, abbia impedito a Malick di prendere le distanze dalla sua creatura per osservarla con un salutare distacco laico e critico. Se così avesse fatto ci avrebbe anche risparmiato una pseudogenesi del mondo ridicolmente disneyana — mi riferisco al pezzo stravinskiano dell'ambizioso, e anch'esso non risolto, Fantasia di Walt Disney (1940) —, con tanto di dinosauri che sembrano usciti di peso dallo spielberghiano Jurassic Park (1993). Senza dimenticare poi le penose fiammelline che aprono e chiudono il film con richiami tra il biblico e l'iconoclasta.
Va in ogni caso riconosciuto che emergono qui e là nello svolgersi dei 138 minuti di proiezione anche prove di grande cinema. Mi riferisco per esempio alla capacità davvero rara di mettere in scena la crisi adolescenziale del fratellino maggiore (Hunter McCracken), il personaggio più convincente del film. Una descrizione a tutto tondo che supera di gran lunga le parti affidate ai pur bravi attori nel ruolo dei genitori: un sempre godibile Brad Pitt, irrigidito purtroppo dalla sceneggiatura nell'ennesima caricatura dell'ottuso e frustrato cittadino medio americano, e una piacevole Jessica Chastain chiamata a rappresentare una "grazia" continuamente offesa dalla cieca "natura" del marito, ma relegata in troppe scene mute attraversate da un fastidioso onirismo in stile Mulino Bianco. A Sean Penn, viene invece affidata la parte del fratello maggiore ormai adulto, che viene assolta con tanti sguardi pensosi e molto vagare in luoghi urbani di vetro e acciaio, su e giù per ascensori panoramici, oltre che con camminate in mezzo a deserti rocciosi e spiagge affollate di "anime in pena" a passeggio. Un poco richiamando qui un certo stile inconsistente alla Lelouch, per intenderci.
In conclusione, chi decidesse di arrischiarsi a vedere il film, potrà, a mio parere, uscirne con maggiori o minori soddisfazioni, ma dubito fortemente che avrà il desiderio di rivederlo o di inserirlo tra i migliori film che abbia mai visto.
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