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Di spalle

Creato il 07 agosto 2011 da Patrizia Poli @tartina

“E’ tardi, Mario, lasciami andare”.

Si era buttata fuori dell’auto, aveva armeggiato con la serratura, per un attimo la luce aveva illuminato l’androne.  Portava una maglia che le stava un po’ grande.  Gli era rimasta impressa l’immagine delle sue spalle magre che sparivano dentro il portone.

Le aveva appena chiesto di sposarlo.

“Sabri, aspetta… dove corri?  Dimmi almeno sì o no.”

“No.”

Erano gli anni ottanta, gli anni delle prospettive, del futuro ancora aperto.  Non l’aveva più rivista.

Fino a questa domenica pomeriggio.

Sta con un’amica, una che lui non conosce, parlano sottovoce nell’intervallo del film.  Per ironia della sorte, anche adesso la guarda di spalle.  Il top elasticizzato la fascia, c’è uno sbuffo di carne attorno alle bretelline, e dei brufoli rossi sulla pelle.

Sua moglie si agita sulla sedia accanto, accavalla le gambe, poi le scioglie.  Mario s’arrabbia, le dà una gomitata.  “Smettila, Carla.  Infastidisci tutta la fila.”

Carla sospira, s’irrigidisce, ma poi riprende subito le odiose contorsioni sulla sedia del cinema.  Sotto le suole dei suoi sandali, bucce di noccioline scricchiolano, e il rumore gli trapana il cranio, mentre fissa Sabrina, senza staccare gli occhi dalle sue spalle ora appesantite, dal laccio del reggiseno che le segna la carne.

Si erano conosciuti ad una di quelle feste in casa, con le ragazze da una parte e i ragazzi dall’altra, le tartine fatte a mano, i dischi di vinile.

Allora non aveva seno, gli occhi si mangiavano tutta la faccia, le gambe erano due stecchi che sbucavano dal vestito.  Gli era piaciuta subito, anche con l’ombretto blu sbaffato, anche se per tutta la sera aveva parlato solo di come in Groenlandia si ammazzano i cuccioli di foca a bastonate, anche se lo aveva costretto a setacciare il buffet alla ricerca di qualcosa che non contenesse carne animale.  Siccome non c’era nulla, lui era sceso di corsa dall’ortolano all’angolo e aveva acquistato un mazzo di carote.  Se lo era fatto incartare per bene - l’ortolano l’aveva guardato come fosse uno scappato dal manicomio - poi aveva rifatto i gradini a due a due.  “Per te, Sabrina”, le aveva detto inginocchiandosi.

Si erano messi insieme subito, avevano girato in macchina per la campagna, avevano guardato il tramonto sull’Arno, avevano fatto l’amore nella mansarda di lei, sotto la finestra dalla quale si vedeva un pezzo della Torre Pendente.

Il biglietto che lei gli aveva scritto, non l’aveva capito.  Gli era arrivato dopo che si era fatta negare al telefono, che aveva cambiato la serratura della mansarda.  Non si parlava d’amore nel biglietto, non c’era scritto se gli volesse bene o no, ma si accennava alla ricerca della felicità, all’impossibilità di fermarsi nello stesso posto e con lo stesso uomo.

Gli erano sembrate frasi da esaltata, da femminista, da matta qual era.

“Una ragazza vale l’altra”, si era detto il giorno in cui aveva sposato Carla, e “un mestiere vale l’altro”, quando gli avevano offerto la cattedra d’inglese alle medie superiori.

Due file più in là, Sabrina alza un braccio per guardare l’orologio, si lamenta dell’intervallo troppo lungo.

Non ha la fede, pensa Mario, non si è mai sposata.  O forse è divorziata.  Al giorno d’oggi, un matrimonio che regge è raro.

Più tardi, quando escono dal cinema, la vede attardarsi insieme all’amica a leggere il cartellone di un “prossimamente”.

Mario aiuta la moglie a infilare il golfino e il suo profumo acuto gli dà la nausea.  Carla è una brava donna, ma qualcosa, pensa, gli sta stringendo lo stomaco, qualcosa che, forse, ha a che fare con la nostalgia, con la gioventù, con tutto ciò che avrebbe potuto essere e non sarà mai più.

Sbatte lo sportello dell’auto con violenza.

“Ho diritto alla felicità”, c’era scritto nel biglietto.  Chissà se adesso Sabrina è felice?

Ma…?

Cazzate…  Una vita vale l’altra.

Già.

Mario mette in moto l’auto, mentre, intorno, si accendono i lampioni.

“Sabri, lo prendiamo un caffè?”

E Sabrina dice stancamente di sì, che lo vuole anche lei un caffè.

Lo bevono nel bar tabacchi d’angolo, in piedi vicino alla ricevitoria del totocalcio.

“Che facciamo stasera, Sabri?  I ragazzi vanno tutti da Luana.”

Sabrina se li figura, i “ragazzi”, riempire il salotto di Luana con la loro allegria stucchevole.  Ragionierotti sudati, tardone con l’ombelico scoperto e i gomiti grinzosi.  Serate fra single attempati, che ridono sempre delle stesse battute e sembrano contenti, anche se si annoiano a morte.

Se andrà anche lei, fingerà di divertirsi alle solite battute di Giovanni sul sederone della Roberta - che è come riascoltare ogni volta lo stesso nastro - berrà fino a farsi venire il mal di testa, fumerà tutto il pacchetto di sigarette.

Se andrà, poi Giovanni l’accompagnerà a casa ed insisterà per salire.  Lei, brilla, non gli dirà di no.  Si lascerà toccare dalle sue mani umide, chiuderà gli occhi per non vedere la pancetta, i pantaloni sformati attorno alle ginocchia.

Le consuete voci, sul nastro dell’abitudine.

“No, Bea, non vengo da Luana, stasera, devo avere un po’ di febbre.  Ti telefono per domani.”

Si avvia a piedi verso il suo appartamento.  Abita al primo piano di un palazzo non lontano dal cinema.

A casa si toglie le scarpe e si distende sul divano.  Accende solo la piccola lampada a lato.

Con la sigaretta in bocca, tenta di spiegarsi quel malessere che prova.

A volte, pensa, vorrebbe essere un’altra persona, una qualunque.  Magari una bambina, con tutta la vita davanti.  Oppure una vecchietta, con l’artrite e gli acciacchi dell’età, ma serena, sicura che i tutti i giochi ormai sono fatti, che non ci saranno più passi falsi, o difficili decisioni da prendere.  Sì, una nonnetta di cui altri si facciano carico.

Ed invece è troppo vecchia per essere giovane e troppo giovane per essere vecchia.

La sua vita è un limbo di giornate tutte uguali, dove ci si alza e poi si va a dormire; dove si traducono fax che parlano di fatture e di rimborsi, che nulla hanno a che fare con Shelley o Keats.

Era a questo che si preparava nelle nottate passate a studiare con i compagni di università, lassù nella vecchia mansarda, con accanto il bricco nero del caffè, mentre Mario, seduto in terra, beveva vino e leggeva il manoscritto del suo romanzo a voce alta?  Mario era convinto che tutti loro sarebbero diventati famosi, che avrebbero sfondato.

Perché non l’aveva sposato?  Se lo era domandata molte volte.

Non che non lo amasse.  Lo amava più di quanto poi avesse amato Fabrizio, e Lele e Franco.  Certo più di Giovanni.

Era stata la paura a bloccarla.  Temeva che, dopo il matrimonio, non ci sarebbe stato altro da aspettare, che l’amore si sarebbe trasformato in abitudine, che avrebbe finito per invidiare i propri figli, giovani, ancora con tutte le strade aperte.

Non aveva voluto più incontrare Mario, si era negata, era partita per Londra.  Aveva scarabocchiato un biglietto in cui affermava che cercava la felicità, la libertà, che il matrimonio è borghese.

Balle.  In realtà, lei, non voleva vivere.

Si era condannata ad un’eterna giovinezza che si vedeva invecchiare.  Finché non avesse raggiunto nulla, finché lei stessa non fosse diventata nulla, s’illudeva di avere ancora una potenzialità di vita.  Per non perdere la propria vita, l’aveva rimandata di giorno in giorno, anzi, vi aveva rinunciato per sempre.

Sabrina si accende un’altra sigaretta, poi chiude gli occhi assonnata.  Ha un vivo ricordo degli anni dell’università, di come allora fosse avida di emozioni.

Ignora che fine abbia fatto Mario ed ormai non le importa più saperlo.

Non sa se ha agito bene o male, non sa se è mai stata davvero felice, non sa nemmeno cosa intende fare domani.

Probabilmente si alzerà presto, andrà in ufficio e la sera vedrà “i ragazzi”.

A dire la verità, il suo più grande desiderio, in questo preciso momento, ed anche per gli anni a venire, è di smettere di porsi domande come queste.

Patrizia Poli


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