Di vita e altre amenità

Da Chiara Lorenzetti

Orben dunque, miei cari lettori, m’accadde ieri di trovarmi per le rue, di tale borgo antico di cui non ricordo il nome, ma ben piantata in testa m’è una storia che l’ebbi qual presente ricevuta.
Non so a voi dir se fu un gioiello o una pernacchia, ma visto il tempo rovinoso, pioggia, freddo ed altri accadimenti, se vi aggrada di accomodarvi qui vicino, la vo’ per voi solerte a raccontare.

Il tempo s’era lieto e divertente, a ridere di giochi e frivolezze con tali amici di cui non faccio nome, per render lor segreta discrezione. Nessun pensier che conti aveva loco, corse, lazzi e qualche smanceria, pareva d’esser nel decamerone o in un racconto senza poesia. Era quello il tempo a dire il ver desiderato, che a voi forse può parere strano, ma questa è un’altra storia ed è privata, la serbo in cuore stretta e relegata.
Dicevo quindi del bel tempo, anche se il sole s’era già oscurato, ma quello, s’è capito, ch’era dentro;  che venne voglia di far cammino e nei ciottoli tra case disabitate, si misero i nostri passi senza meta. Quand’ecco nel silenzio un po’ spettrale, di dentro ad una delle case, s’udì una voce recitare o forse già cantava con passione. Non erano lamenti veri e propri, o forse un dito calpestato, un uomo o donna o forse emafrodito, di certo non un cane od un leone.
Restammo senza inganno non lo nego, bloccati come di cemento, le gambe lasse e il riso un po’ smorzato, senz’altro fiato che non fosse vento. La cosa pare calma a voi lettori, che siete lì seduti a casa vostra, caffè, biscotti vino e cioccolato, restato d’uovo rotto e già mangiato. Par facile rider da lontano, di cose che a voi toccano di striscio, o far da coraggiosi resta in mano, seduti sul bidè o in poltrona. Ma se voi foste stati accanto a quel portone, quel gelo avrebbe preso il sopravvento, e voi così arditi e ardimentosi, di certo in bagno ancor stareste correndo.
Per farvi un po’ capir di cosa parlo, vogliate qui veder dov’eravamo; prendete del cordiale stretto in mano, che lo spavento non vi rechi troppo lontano.

La voce s’era fatta tempestosa, la udimmo e sciocchi non si v0lle andare anche se la mia mente già diceva “restare è già  cadere in fondo al mare”. La lingua che parlava ora era chiara, non so poi dirvi bene s’era uomo, o donna o qualche strano caso; di certo nominava tanti fatti, di vita, amore, debolezza, di fede, spesa, gelosia, di rabbia, di dolce tenerezza, che razza umana certo discendeva.
Paura ch’era subito accaduta, finì poco a poco in attenzione, che ciò che blaterava dal profondo, parevano parole chiare e forti. Si fece tra di noi una cautela, che tesa era alla comprensione, nessun accento perso, nessun moto, che ciò pareva pura devozione.
Amore, vita e poi coraggio, ancora amore, amore, speme e poi la nostalgia; ancora solitudine e un gran magone. La voce ancor tuonava dall’interno, un gran proclama di benevolenza o forse era una tragedia greca o Dante o Ulisse o sol parole vuote al vento, al vento. Passò un quarto d’ora e ancor parlava  e piano piano che fu il tempo avanti, la voglia d’ascoltare andava già a merenda.
Allor che lenta fu la nostra impressione, girammo tre volte i piedi sul selciato e dentro osammo entrare un po’ affannati, ma mano nella mano ebbe coraggio.
Pareva tutto un sangue rosso intenso, ma poi toccammo ed era fragolino; pareva urla forti di spavento, ma nastro registrato, che cretino. Il buio nero pece era una tenda, posata sulla luce, che invenzione e quei lamenti ecco solo quelli, no, vi dico il vero, non erano finzione.
“Pazienza” fu quello che dicemmo, il cuore sollevato ed or burlone, e come due bambini ce ne andammo, ridendo di quel gioco spaventoso.

Ed ecco miei lettori questa storia, a tratti allegra, mite o burrascosa, che feci ieri in mezzo a delle rue;  ma poco fece il movimento che a rider di ciò poi noi fummo in due. Di ciò ch’è capitato posso dire, che rese ancor più strette le persone, che nulla scalza il riso e la fermezza, se non ciò che fatto insieme non si spezza.
Voi tutti convenite che non si è soli, che sempre noi si deve ragionare di gente accanto che ci vive e sempre avere forza e non temere; che se ciò che si prova è salutare, fa bene, ridere e mangiare, allor nessuno tema d’avanzare, che se scegli il sorriso non è mai sbagliare.
Non sempre nella vita d’ogni cristo, ciò che tu ridi io lo rido pure; non sempre ciò che piangi sono disgrazie che vivo con lo stesso cuore. Se vuoi che io ti creda sii sincero, non farne ogni volta un tormentone, non metter paramenti o strane vesta, non grida o spari a salve che son finzione.
Perchè poi stai sicuro o uomo o gatto, o mago oppure donnaleone, che pur nel buio tempestoso, la vita scorre avanti e mai indietro e che di posto per tutti ce n’è un milione.

Chiara



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