In occasione dell’imminente uscita del libro L’unità nella diversità. Religioni, etnie e civiltà del Kazakhstan contemporaneo (a cura di Dario Citati e Alessandro Lundini), pubblichiamo in anteprima un documento originale contenuto nel volume: l’intervista che il 27 ottobre 2013 Dario Citati ha realizzato a Roma con Mons. Athanasius Schneider, Vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Maria Santissima di Astana, Segretario generale della Conferenza dei Vescovi cattolici del Kazakhstan, dottore di ricerca in Patrologia e professore presso il Seminario Maggiore di Karaganda. Il libro L’unità nella diversità, frutto di una ricerca collettanea di alcuni ricercatori IsAG che inaugura la collana “Orizzonti d’Eurasia” dell’IsAG stesso presso Fuoco Edizioni, sarà presentato ufficialmente alla Sala Zuccari del Senato della Repubblica martedì 10 dicembre 2013, alle ore 16, in occasione di una tavola rotonda cui parteciperanno, fra gli altri, la Senatrice Prof. Stefania Giannini, il Prof. Gianfranco Lizza, P. Luciano Larivera SJ., il Dott. Gabriele Tecchiato del Centro Islamico Culturale d’Italia.
La Repubblica del Kazakhstan ospita circa 130 etnie e 40 confessioni religiose e ha trascorso settant’anni in regime di ateismo di Stato. Pur essendo a maggioranza musulmana, sin dall’indipendenza il Paese ha optato per un modello di convivenza costruita attorno all’idea di «identità kazakistana», cioè laica e sovranazionale. Tuttavia, mentre attualmente in molti Paesi europei il concetto di laicità è spesso sinonimo di indifferenza, e talora di irriverenza, verso il fatto religioso come tale, in Kazakhstan vi è una valorizzazione delle tradizioni religiose e un riconoscimento aperto della loro importanza nello spazio pubblico. Tenuto conto della situazione specifica del Paese, in cui i cattolici rappresentano un’esigua percentuale sul totale della popolazione, come valuta questo approccio delle autorità civili?
Io ho vissuto in Unione Sovietica e ricordo bene come sotto il comunismo a scuola vi era l’ora settimanale di ateismo: proprio per questo posso riconoscere che l’attuale classe dirigente del Kazakhstan indipendente e sovrano ha fatto tesoro di questa settantennale esperienza di ateismo ufficiale. Tutti sanno che, nonostante l’imposizione dell’ateismo, in URSS la religione continuava ad essere praticata clandestinamente; la stessa Chiesa cattolica è fiorita proprio nella clandestinità. Le autorità civili hanno compreso che è impossibile eliminare la religione dalla vita dei popoli, e al contempo hanno preso coscienza del tracollo spirituale che ha accompagnato la fine del comunismo, del vuoto di valori che esso aveva lasciato, a partire proprio da quelli religiosi. Il governo attuale è consapevole della necessità di tener conto della naturale apertura metafisica dell’essere umano, così come che il potenziale spirituale della religione può contribuire alla costruzione di una società più giusta. Ciò è alla base di un approccio che prende sul serio il fatto religioso e che, come Lei giustamente osservava, si distingue in modo palpabile da un certo laicismo radicale riscontrabile oggi in Europa. Si tratta tuttavia non solo di una scelta politica, bensì di un aspetto che afferisce alla psicologia dello stesso popolo kazako, il quale manifesta spontaneamente un’attitudine rispettosa verso le tradizioni religiose. Affermo ciò senza alcuna retorica, perché ho testimonianza diretta di tale comportamento. A questo proposito potrei raccontare un aneddoto tanto divertente quanto significativo. Tempo fa stavo guidando la macchina per le strade di Astana e avevo dimenticato di allacciare la cintura di sicurezza. Poiché la circolazione automobilistica è sempre molto controllata, fui fermato da un giovane poliziotto locale, chiaramente di etnia kazaka, che mi fece cenno di scendere dalla vettura. Ho ragione di ritenere che per lui fosse la prima volta nella vita in cui si trovava un Vescovo cattolico a distanza così ravvicinata! Questo giovane poliziotto mostrò già nello sguardo e nei gesti un atteggiamento molto rispettoso nei miei confronti, per poi chiedermi, senza alcuna nota di sarcasmo: «Mi scusi la domanda, qualche precetto della Sua religione Le impedisce di allacciare la cintura?». Ricevuta risposta negativa, mi disse educatamente che avevo commesso un’infrazione e che la volta successiva sarebbe stato costretto a multarmi. Questo accadimento simpatico che mi è occorso è indicativo di come i Kazaki percepiscano naturaliter una riverenza verso la tradizione religiosa come tale e verso i suoi rappresentanti, anche qualora ne ignorino completamente i contenuti.
Un secondo aspetto da osservare è il monitoraggio delle religioni da parte dello Stato, di cui si occupa l’Agenzia per gli Affari Religiosi di recente istituzione. Nel contesto kazakistano, comprendo il punto di vista delle autorità civili, che sanno come il fattore religioso può sempre essere strumentalizzato per fini politici, ultranazionalistici e soprattutto terroristici. Il Kazakhstan è un Paese a maggioranza musulmana, ma benché questa maggioranza manifesti uno spirito tollerante può risentire dell’influenza di regioni limitrofe. Dopo settant’anni di ateismo di Stato, anche l’islamizzazione radicale proveniente dall’esterno può fare presa tra la popolazione nel vuoto di valori lasciato dal comunismo. Per questo motivo comprendo il livello di vigilanza e controllo sulle comunità religiose per scongiurare la proliferazione di movimenti estremisti. Sicuramente, a fronte di un rischio reale, il monitoraggio dello Stato si è rivelato sinora efficace. Mi sembra anche positiva, generalmente parlando, la concezione espressa dal Presidente Nazarbaev secondo cui la società kazakistana va intesa come una sorta di famiglia unita che deve costruire la concordia civile. Nazarbaev parla anche di «concordia spirituale», espressione che però nella lingua russa ha una sfumatura caratteristica: la formula corretta è mir i duchovnoe soglasie v obščestve, cioè «pace e concordia spirituale nella società» in cui la parola spirituale non significa religiosa. Mi piace questa definizione innanzitutto perché non ha timore di affermare che l’uomo non è composto di sola materia, ma è dotato anche di spirito; inoltre, essa distingue una spiritualità in senso ampio, che può essere condivisa dai credenti di diverse fedi, dalla dimensione dottrinale e confessionale che invece è propria a ciascuna di esse. A partire da questo si possono intendere correttamente le ricorrenti espressioni «concordia inter-confessionale e inter-etnica».
Nel suo libro Dominus Est, Lei ha rammentato la spiritualità di famosi cristiani orientali di rito bizantino quali Giovanni di Kronštadt e il grande scrittore russo Nikolaj Gogol’, sostenendo che la Chiesa cattolica potrebbe ritrovare in quelle orientali gli elementi per un maggiore rispetto del proprio patrimonio teologico e liturgico, a partire dal Rito Romano antico. Vorrei prendere spunto da ciò per chiederLe del rapporto dei cattolici con gli ortodossi del Kazakhstan. La confessione cattolica come tale rappresenta infatti un’esigua percentuale, ma se considerata all’interno del cristianesimo apostolico diventa una minoranza di rilievo. Qual è il rapporto fra cattolici e ortodossi in Kazakhstan, e in che misura essi possono costituire una voce relativamente unitaria?
I rapporti che abbiamo con la Chiesa ortodossa sono certamente buoni. Il nuovo metropolita ortodosso del Kazakhstan, Aleksandr, è una persona molto fraterna e cordiale. Naturalmente dappertutto si possono trovare, tanto fra il clero quanto tra i fedeli, singole persone che sono ostili al cattolicesimo, ma con la gerarchia ecclesiastica abbiamo buoni rapporti. Non facciamo certamente incontri ecumenici, ma capita di ritrovarci in occasioni ufficiali. Bisogna anche tener conto che la Chiesa ortodossa in Kazakhstan dipende dal Patriarcato di Mosca, con cui necessariamente deve concordare le proprie scelte. Di conseguenza, il tipo di rapporto tra il mondo cattolico e il Patriarcato di Mosca si riflette nelle relazioni tra cattolici e ortodossi in Kazakhstan. Questo in termini generali. Per analizzare più nel dettaglio il clima esistente tra le due confessioni cristiane, al contempo, è bene considerare non soltanto le relazioni fra le rispettive gerarchie ecclesiastiche, ma anche i rapporti tra i fedeli: da questo punto esiste per così dire un «ecumenismo di base» che valuto importante per la comprensione reciproca. C’è ad esempio un numero non trascurabile di matrimoni misti tra ortodossi e cattolici, così come relazioni di amicizia sul piano personale.
Anche io, come Vescovo, ho amicizie personali con alcune famiglie ortodosse molto praticanti, che mi considerano come un padre spirituale. Nel nostro rapporto non parliamo di dottrina della fede, ma in modo amicale discutiamo di questioni spirituali che sappiamo essere comuni: la devozione alla Vergine e agli angeli, il senso del sacramento eucaristico. Apprezzo tanto il fatto che essi pregano per me, ad esempio quando mi appresto a partire per uno dei miei viaggi: in questa occasione, gli amici ortodossi hanno l’abitudine di far celebrare una Messa per me, per augurarmi un buon viaggio. Si tratta a mio parere d’un esempio concreto di rapporto ecumenico per così dire «di vita» che io valuto molto importante, considerato che le dotte disquisizioni teologiche tra esponenti del clero cattolico e ortodosso non hanno invece portato frutto. In ambito ecumenico è infatti necessario un dialogo aperto e sincero, ove non si nasconda nulla della propria identità: per noi cattolici, ad esempio, resta essenziale l’affermazione del primato petrino, che costituisce certamente la pietra di inciampo più grossa, vista la condivisione generale della maggioranza degli articoli di fede. In questo ambito, tuttavia, si inserisce anche una dimensione di carattere politico e per così dire psicologico: gli ortodossi in Kazakhstan devono ancora pienamente abituarsi a noi, e certamente esiste anche tanta diffidenza, che però è tipica del mondo orientale. Gli Orientali sono generalmente più diffidenti, ma una volta che hanno conosciuto appieno l’interlocutore e questi ha dimostrato lealtà e schiettezza, si aprono con grande fiducia.
Interessante questa notazione «etnografica» in quanto, al di là dell’aspetto confessionale, anche Lei potrebbe dirsi almeno parzialmente partecipe di tale carattere orientale. Ciò si lega all’ultima domanda dell’intervista: il Kazakhstan è un Paese assolutamente peculiare per la sua dimensione multi-etnica, una realtà spesso difficilmente comprensibile agli occhi di un Europeo. Proprio la Sua storia personale – Lei è nato nel Kirghizistan sovietico da una famiglia di origine tedesca – è un esempio di quella condizione di «cerniera» fra Europa e Asia rappresentata dal Kazakhstan, di cui parlò lo stesso Giovanni Paolo II nell’allocuzione all’Università di Astana nel 20011. All’infuori della dimensione religiosa, come descriverebbe ad un Europeo la situazione di compresenza di numerosi popoli, etnie e culture in Kazakhstan?
In epoca contemporanea questa situazione è un portato della politica del terrore e della repressione del periodo staliniano. Per secoli, il territorio dell’attuale Kazakhstan ha rappresentato il genius loci dello spirito nomade dei Kazaki e di altri popoli turco-mongoli, ma la dimensione multietnica attuale è soprattutto un’eredità dello stalinismo, che ne fece una vera e propria terra d’esilio per i dissidenti. Non sono certo il solo ad affermarlo: tutti gli storici riconoscono oggi, in consonanza con le memorie della popolazione, che sotto Stalin il Kazakhstan divenne un enorme campo di concentramento. Ad esempio, il tristemente celebre Karlag (acronimo russo di Lager di Karaganda) fu uno dei gulag più grandi dell’URSS, strutturato come una serie di campi che si trovavano su un territorio grande più o meno come la Francia. Anche per i miei genitori, ad esempio, Kazakhstan era purtroppo sinonimo di deportazione. Proprio per questo tanti gruppi etnici e religiosi sono arrivati nel Paese e le generazioni di popoli differenti sono cresciute accomunate da questo drammatico destino. Ma è stato anche e soprattutto il popolo kazako a dar prova di grande umanità: i Kazaki cercavano in tanti modi di aiutare i deportati che arrivavano e restavano sul territorio del Paese in condizioni difficilissime. Trovo che questo fatto storico costituisca un esempio concreto della nobiltà d’animo e della generosità del popolo kazako. Un aspetto paradossale, inoltre, è che i diversi popoli del Kazakhstan hanno trovato un motivo di unità proprio nella comune condizione di esilio e deportazione: un senso di appartenenza ad una sofferenza condivisa che, grazie a Dio, è stato custodito sino ad oggi. La consapevolezza che tutti hanno patito la medesima sorte ha generato un certo spirito di solidarietà reciproca, che la politica di unità nella diversità del Kazakhstan indipendente tende a incentivare.