Il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez è stato composto nel 1824 e fa parte delle Operette Morali, il grande affresco filosofico in cui Giacomo Leopardi espresse il suo pensiero in forma discorsiva o dialogica.
Gutierrez accompagna il celebre navigatore nel viaggio alla ricerca delle Indie; una notte, la stanchezza per la finora frustrata attesa di arrivare alla terraferma fa sorgere questo dialogo. L’uomo chiede a Colombo se crede che lo scopo verrà raggiunto: “... se ancora hai così per sicuro come a principio di trovar paese in questa parte del mondo; o se dopo tanto tempo e tanta esperienza in contrario, cominci niente a dubitarne”.
La risposta accoglie alcuni dubbi: “... confesso che sono entrato un poco in forse”. Perciò, di primo acchito, sembra di leggere un testo dedicato alla vanità dell’agire umano; tanti calcoli, studi, progetti destinati ad approdi incerti, insicuri, contradditori o diversi da quanto ci si era prefissato. Il genovese passa in rassegna i segni che nel viaggio lo avevano fatto inutilmente sperare. Ora è giunto a pensare perfino che sia “ … vana la congettura principale, cioè dell’avere a trovare terra di là dall’oceano”. La pratica, nota ancora, spesso discorda dalla speculazione e quindi ogni ipotesi potrebbe rivelarsi fondata o infondata. Si potrebbe trovare solo un immenso mare, oppure effettivamente la terra, o un elemento diverso da acqua e terra. Magari sarà un posto disabitato e inabitabile. Nonostante tanto sferragliare di cervelli, nulla si sa con certezza. Il sapere deve attendere il vaglio della realtà: “… veggiamo che molte conclusioni cavate con ottimi discorsi, non reggono all’esperienza”. A questo punto Gutierrez, in modo misurato ma esplicito assesta una dura domanda diretta. Il navigatore sulla base di una semplice opinione speculativa, ha esposto la vita sua e degli altri? Una mera ipotesi, una labile congettura giustifica un viaggio così pericoloso? È la fase più drammatica del dialogo, quella in cui la debolezza della ragione umana viene smascherata pienamente e con essa una certa consapevole spavalderia dell’uomo che vuole comunque “andare a vedere”, rischiando col suo azzardo di trovare con lo smacco per le proprie teorie sbagliate anche la morte. Ma da qui in avanti il tono si apre alla speranza e a una certa fiducia, per quanto tutto il testo in generale si mantenga su un livello sobrio. Colombo ammette che c’è solo una congettura dietro al suo viaggio. Forse si arriverà alla terra tanto cercata, forse invece i calcoli si riveleranno errati. Ma già questo permette di fare passi avanti; il viaggio consente di rilevare gli errori negli scritti del passato e questo fa crescere tutta l’umanità. Il genovese all’inizio era parso come l’uomo che erra due volte, sia nel senso di viaggiare, sia in quello di sbagliare. Ora invece appare come un faro dell’umanità, conscio della limitatezza dei mezzi della scienza, ma pronto a cogliere nel calcolo smentito dall’esperienza un’occasione di crescita. Il viaggio di Colombo è il viaggio dell’uomo che procede per tentativi, fa tesoro degli errori, si muove con raziocinio e senza drammi, poiché fin dall’inizio non nega la propria fallibilità. Soprattutto, e questo appare il nucleo più leopardiano, il viaggiare permette di tenere lontana la noia che fa scoprire il vuoto del vivere. Cercare e arrischiare permettono di tenere cara la vita, facendo stimare cose altrimenti non tenute in debito conto come la vita stessa, la casa, la tranquillità. Quindi lo stimolo che viene da questo scritto è un invito all’azione, all’attività, all’avere obiettivi anche ambiziosi. Cosi la piaga della noia resta distante e cercando le grandi cose si apprezzano le piccole che stanno nella quotidianità. Se nel Dialogo tra un venditore d’almanacchi e di un passeggere si insisteva sul fatto che l’uomo pone il piacere sempre nell’avvenire, non avendone esperienza nel passato e nel presente e là questo era un disincantato prendere atto di come ci si voglia autoingannare nel pensare che la felicità (mai vissuta né ieri né oggi) sia sempre possibile in un domani (cui forse mai si giungerà), qui il testo offre, invece, puntelli di speranza e fiducia. Colombo tiene sempre lo sguardo alla natura e ne osserva attentamente le manifestazioni. Le nuvole, l’aria, il vento, gli uccelli, qualche ramicello nell’acqua lo inducono a un cauto ottimismo: “… tutti questi segni, per molto che io voglia essere diffidente, mi tengono pure in aspettativa grande e buona”. Così termina il dialogo, con queste note di azzurro; i due personaggi non sono per niente spaventati dall’immensità dell’oceano, tanto che la loro apprensione si fa sempre più tenue. La natura qui non incute timore all’uomo, ma si offre docile alla sua osservazione. Le congetture di Colombo sono una teoria nel senso greco del termine, sono ossia un attento osservare, un ragionare tenendo gli occhi sul mondo circostante. Si potrebbe dire che il bellissimo dialogo in realtà è un “trialogo”. Tre sono infatti le voci; Gutierrez, Colombo e la natura stessa.