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Caldo, tendenzialmente. Dopo mesi passati con il Kway nello zaino per fronteggiare acquazzoni improvvisi ora è il turno della dry season. E' così che qui chiamano quella cosa indistinta che dovrebbe assomigliare all'estate, con la differenza che arriva giusto in tempo per Natale.
E fino a qui abbiamo detto solo di meteorologia; caldo e freddo, sole e pioggia, neve in Val Padana e sole bollente ai tropici. Il tempo, quello vero, bisogna ancora guardarlo negli occhi. Non è così chiaro come mai quelli che hanno inventato l'italiano, e il latino prima di lui, abbiano deciso di chiamarle allo stesso modo, due faccende così diverse.
Cosa avranno mai a che vedere le bombe d'acqua con lo scorrere dei minuti, dei giorni, di un'intera esistenza misurata a giri della terra.
Un caso forse, o l'idea che l'alternarsi delle stagioni sia il più primitivo dei nostri orologi. Qui gli orologi esistono appena. E non li guarda nessuno.Giro di boa. Una brutta espressione, presa in prestito dalla nautica, che serve a ricordare a qualcuno di essere arrivato a metà. È successo qualche giorno fa, mi sono svegliato e mi sono accorto che i giorni che mi separano dal mio arrivo hanno eguagliato quelli che mi attendono prima della partenza. Tempo di tirare il fiato, girare la prua e tornare verso riva. Ho cambiato orologio. Qui ho portato due Swatch, coloratissimi. Quello giallo l'avevo addosso a Malpensa, quando ho controllato l'orario per capire se ero in ritardo per l'imbarco. Non l'ho mai tolto, fino all'altra sera. Ora se mi guardo il polso sinistro vedo un quadrante verde fosforescente. Segna l'orario di un tempo che non esiste, un'ora a metà tra quella di qui e l'ora legale italiana, in disuso da un po'. Mi fa sentire sospeso, che non ho ancora capito se è una cosa bella.Ho pensato alla nostalgia come ad una clessidra piena di sabbia che cade a granelli da un lato all'altro, secondo gravità. Accade, ad un certo punto, che i granelli di sotto diventino più di quelli di sopra e, se proprio non si vuole che si fermi, occorre che qualcuno la giri. Così da mancanza del luogo che si è lasciato, diventa mancanza del luogo dove si è, una specie di malinconia anticipata, struggente che si somma, senza sostituire, al desiderio di casa.
Il passare del tempo, quaggiù, fa affidamento su unità di misura tutte sue. Si conta in pastiglie di Lariam che, una a mercoledì, si riducono sul mio comodino. Si misura a referti di ecocardiogrammi stampati su fogli A5, una pigna che millimetro dopo millimetro cresce sulla mia scrivania con velocità diversa di giorno in giorno, ma comunque inesorabile. Si potrebbe persino misurare negli strati di ghiaia ed asfalto che si accumulano nella strada polverosa che passa qui fuori.
È giunto il momento di andare a letto. Non ho idea di che ora sia. Mi bastano uno sbadiglio e il rumore dei rospi, che entra incessante dalla finestra affacciata sul cortile dell'ospedale.
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