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Diario africano - 44/Chirurgia

Creato il 19 gennaio 2015 da Mapo
Lacor Hospital, 3 gennaio
La figura del pirla la faccio a tempo zero: "ma questi interventi non si dovrebbero fare con il monitoraggio invasivo della pressione arteriosa?" - chiedo, guardando il bracciale dello sfigmomanometro allacciato al polpaccio di questa ragazza stesa sul lettino di sala operatoria, ancora sveglia. I trasduttori, mi spiegano, ci sarebbero anche, venuti da chissà quale donazione all'ospedale, ma a mancare è la macchina a cui collegarli.
Diario africano - 44/ChirurgiaQui, nel blocco chirurgico del St. Mary's Lacor Hospital, si fa quel che si può, verrebbe da dire. Il che, a guardar bene, non è mica poco.
Sono stato invitato da un'equipe di volontari chirurghi otorinolaringoiatri ad assistere a qualche intervento. Sono toscani - e non si potrebbe dire il contrario dati accento e simpatia - e vengono in Uganda da qualche anno a dire che la tiroidectomia, un complicato intervento in cui si rimuove parte o tutta la ghiandola tiroide, si può fare anche qui.
Siamo nelle sale dove operava Lucille (Teasdale) Corti, la chirurga canadese che con il marito e collega anestesista Piero ha avviato l'ospedale nel lontano 1959. Prima di morire di AIDS nel 1996 questa donna, esile e immensa allo stesso tempo, ha condotto instancabile migliaia di interventi chirurgici, spesso complicati, in condizioni quasi sempre proibitive o quantomeno difficili. La sua storia è raccontata in un piacevole Harmony dal titolo "Un sogno per la vita" di Michael Arseneault.
A volte fuori c'era la guerra, quella vera con tanto di fucili e colpi di machete che aprivano le teste in due come zucche mature, e lei operava. C'erano partorienti in fin di vita che venivano portate con colpevole ritardo agli occhi dei medici, e lei operava. A volte c'era la paura che costringeva buona parte del personale sanitario a scappare altrove, e lei operava. C'era la malattia, che le cresceva dentro piegandole le gambe e impedendole di mangiare, e lei operava.
Sunday, la ragazza di 29 anni che giace ora sotto i ferri come morta, con un tubo in gola e il collo aperto in una lunga incisione orizzontale che tengo aperta con i divaricatori di ferro, ha un gozzo come tanti. Di quelli che in Italia vengono operati appena ci si accorge che comincia a cambiare il timbro della voce. Lei, in un angolo di mondo dove i tumori diventano grossi meloni prima di destare qualche perplessità, ormai sembra un grosso pellicano nero e da qualche settimana la fame d'aria era diventata insostenibile.
E allora si toglie la tiroide, se si riesce lasciandone un pezzo perché qui, dove diventa complicato reperire un antibiotico un po' più forte per provare a frenare il dilagare di una polmonite, raccontare a un paziente che dopo l'intervento deve prendere una pastiglia con un ormone dentro, e che deve farlo per tutta la vita, è un'impresa titanica. Qualcuno ce la fa, con un po' di buona volontà e considerevole impegno economico.
Diario africano - 44/ChirurgiaDicono che Lucille avesse davvero un caratteraccio, che è quello che si dice di chiunque pretenda rigore e disciplina, due dettagli senza i quali questo posto da dove scrivo in una pausa dal lavoro, probabilmente nemmeno esisterebbe. Si potrebbe parlare a lungo di questa figura, così lontana eppure così vicina, usando le parole della Montalcini o sciorinando una lista di premi e riconoscimenti internazionali, ma io preferisco i dettagli più piccoli.
Lucille sgridava i pazienti fin quasi alla violenza quando si facevano togliere dallo stregone del villaggio i denti davanti, in una pratica pericolosa di medicina tradizionale chiamata ebino per cui a volte arrivavano in ambulatorio più morti che vivi. Usava i film di vecchie lastre per confezionare custodie impermeabili dove i malati potessero tenere tutta la loro documentazione sanitaria. Quando si trattava di fare un intervento chirurgico per la prima volta non diceva mai "non so come si fa" e si metteva i guanti. Lucille ha deciso di venire in Africa con l'amore della sua vita in un ristorante di Marsiglia, davanti a un bicchiere di vino rosso.
Siamo quasi alla fine, è stato rimosso un intero lobo della tiroide con dei grossi noduli bozzuti sopra. Il flusso dei pensieri si interrompe in tempo per farmi dare una mano a mettere i punti. L'intervento è andato bene, bisognerà fare degli esami del sangue e vari controlli. La ferrista si riposa in fondo alla sala appoggiando la testa sul carrello con gli strumenti rimasti inutilizzati, una delle anestesiste legge una rivista e la luce non è sistemata correttamente a illuminare la ferita. Lucille si arrabbierebbe di certo, ma sotto sotto sarebbe contenta a guardare le cose che sembrano funzionare, anche a distanza di mezzo secolo.
Diario africano - 44/ChirurgiaQuando ho chiesto a Roberto, il capo-chirurgo, il momento più brutto di queste settimane di "Thyroid Camp" passate in Uganda ha raccontato di una paziente che, nonostante un rischio operatorio troppo alto, aveva insistito per farsi togliere quell'enorme massa che a stento le faceva voltare il collo a sinistra. E' morta sotto i ferri. Mi ha raccontato di quando è uscito dalla sala operatoria per dare la notizia ai parenti, con la tutina verde e la mascherina ancora addosso. Una famiglia intera, con tanto di stoviglie piene di cibo e bambini di tutte le età; se ne stavano assiepati a terra con quel fare un po' dimesso che sembra renderli inscalfibili come fossero pietre, ma solo in apparenza. Lui ha parlato, tentando di farsi comprendere il più possibile in bilico su quell'incerto terreno comune ai due fronti chiamato impropriamente inglese. Quando ha finito, mentre ancora si stava chiedendo se avessero capito, loro hanno cominciato a piangere silenziosamente, senza bronci o singhiozzi, si sono alzati, lo hanno ringraziato stringendogli la mano, hanno raccolto le loro cose e sono andati via.
Avreste dovuto sentire i momenti più belli.

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