Se c'è una cosa che odio di Sorrentino é quel modo di girare le scene dei suoi film in uno smaccato "grassetto", con quell'intento narcisistico di stupire lo spettatore con i popcorn ancora a mezz'aria tra la mano e la bocca, più che di raccontare davvero qualcosa. Chiunque abbia visto più di 4 minuti de La Grande Bellezza, può capire appieno cosa intenda. Si ha costantemente l'impressione che, se si trovasse a filmare la scena di una banale colazione in famiglia, ci metterebbe davanti ad uno schermo inizialmente tutto bianco, con una telecamera che, piroetta su piroetta, uscirebbe direttamente dalla tazza di latte caldo tra le mani del figlio, in partenza per la scuola con lo zaino sulle spalle.Se c'è una cosa che sopporto ancora meno, poi, é quella di sentirmi buona parte della giornata come se fossi l'inconsapevole protagonista di uno di questi vuoti esercizi di stile.
A chiunque mi chieda come mi sento ad essere tornato a casa, dopo questi mesi africani, provo a dare la stessa risposta, sincera e disarmante: come se mi avessero appena gettato di improvviso in una enorme vasca d'acqua gelata. Più precisamente nell'istante esatto in cui vengo estratto dall'acqua, e me ne sto freddo e nudo esposto a tutti i venti possibili. La telecamera, montata su braccio mobile, mi riprende adagiato su una sdraio con gli occhiali da sole, partendo da sotto la sedia e poi, roteando, risale lungo la mia schiena bianca. Di vertebra in vertebra, va sempre più in alto, guadagnando ogni centimetro fin sopra la testa, per poi perdermi un attimo appena, quello del tonfo, e ritrovarmi dall'altro capo della piscina con gli occhi sgranati e la pelle d'oca. Il tutto, ovviamente, condito da una colonna sonora adatta all'occasione.
In queste ore, a Gulu, comincia a intravedersi la Croce del Sud nel firmamento, i pipistrelli volano indisturbati da un albero all'altro, gli Acholi riposano nel buio delle loro capanne e il medico di guardia è appena stato chiamato al telefono perché in astanteria hanno portato le ultime vittime dell'ennesimo incidente in moto. C'è sangue dappertutto, tranne che nella banca per le trasfusioni. Ci sono ossa rotte, milze che si aprono nell'addome via via più teso, traumi cranici orfani di una TAC. Alcuni muoiono mentre aspettano un miracolo che non arriva, altri sopravvivono senza sapere quale dio ringraziare per questo innato equilibrio che li ha mantenuti dal lato giusto del filo. Lo zoom sulla mano aperta di chi ha esalato l'ultimo respiro e il rumore sommesso di pianti in lingue diverse.A questo punto, fossi Sorrentino, proporrei un cambio scena repentino e ossimorico, per approdare nel corridoio davanti alle sale operatorie dell'ospedale dove lavoro. Il silenzio della sera che arriva è rotto soltanto dal ronzio (amplificato in post-produzione dal tecnico del suono) di un grosso macchinario appoggiato al muro. E' simile a un gigantesco frigorifero, con un buco al centro e uno schermo 13 pollici costantemente illuminato. Dopo qualche secondo si avvicinano dei passi col tacco di chi è già in borghese, alla fine di una giornata di lavoro, e una mano infila frettolosamente una tutina verde nel buco, troppo veloce per rendersi conto che, sullo schermo, é appena apparso un messaggio di ringraziamento con nome e cognome della dottoressa.