Diario africano/27 - Teatro

Creato il 16 novembre 2014 da Mapo
Kampala, 15 novembre
Una ragazza con dei tacchi rossi e una gonna corta attacca a chiacchierare ad alta voce con un'amica di qualche anno più vecchia. Ridono per qualche minuto, finché dal retro esce un signore in abiti da lavoro eleganti. Occhiali dalla montatura evidente, in mano un plico di documenti e l'aria accigliata. Intima il silenzio appoggiando l'indice della mano destra alle labbra: "incontro di lavoro, abbassate la voce". Poi, torna da dove è venuto.Qualche minuto più tardi, una signora con i jeans che passa di lì chiede alle due ragazze perché parlino così a bassa voce. Una volta ottenuta risposta attacca una filippica sul fatto che nessuno nel 2014 dovrebbe permettersi di dire a una donna cosa deve fare e quando. Urla, sbraita anzi, tra l'imbarazzo delle interlocutrici che tentano invano di spiegare come tutto l'equivoco nasca solo dalla necessità di avere un po' di concentrazione in una riunione di lavoro."Andiamo a prendere questo cafone maschilista", impreca con il pugno chiuso sopra la testa. Si dirige verso la porta ma è preceduta dal ragazzo di prima che, scocciato, ripete il rimprovero. "Shhhhhhhhhh". Lei china la testa, fa segno di chiedere scusa e si allontana sommessamente tra le risate sguaiate del pubblico. Urlano tutti, battono mani e appallottolano banconote di piccolo taglio che dalla platea lanciano sul palco in maniera scomposta.
Ieri sera sono andato a teatro, a Kampala. Essere nella capitale, del resto, non capita tutti i giorni e quello stare davanti al sipario rosso in attesa che si alzi mi mancava troppo. Il teatro nazionale d'Uganda, l'unica sala degna di questo nome in tutta la nazione, sarebbe poco più di un cinema di paese in pianura padana, di quelli che chiudono per fare posto a terribili multisala senza arte nè parte. Una specie di Zelig reso solo un po' insipido dalla solita barriera linguistica, sempre così determinata a farmi capire metà delle battute, buona parte delle quali, peraltro, pronunciate in Buganda, il dialetto locale.
Il biglietto (unico) costa 15000 scellini (un po' meno di 5 euro) e ne vendono sempre di più rispetto ai posti disponibili. L'orario di inizio dello spettacolo è un numero confuso che spazia dalle 19.30 alle 20.30. Se c'è una cosa che posso dire con certezza è che la lotta per il bracciolo della sedia può essere considerata una disciplina internazionale. Il gomito sinistro della mia vicina di posto si è adagiato nel mio quarto spazio intercostale per buona parte dello spettacolo. Nel resto del tempo si trovava al bar a mantenere a furia di secchiate di pop-corn i suoi 90 Kg di grasso. In Uganda se sei a teatro puoi alzarti quante volte vuoi, mangiare quello che vuoi nella quantità che preferisci, parlare al telefono con tutti i tuoi parenti, sederti davanti, dietro, sopra e sotto qualsiasi degli altri spettatori senza chiedere niente. Non solo: puoi commentare le battute degli attori e, se sei proprio estroverso, persino cominciare a dialogarci. Io, per esempio, per protestare contro la scelta dei costumi, ho giocato a spaventare con la mia faccia bianca una bambina di pochi anni che ha strillato per buona parte dello show. C'è chi ha cantato una canzone accompagnato dalla chitarra, chi ha proposto una satira sottile sulla lentezza della giustizia ugandese, chi ha ironizzato sull'abbigliamento delle donne ugandesi di oggi a confronto con mezzo secolo fa e chi ha giocato a rubare una bibita gassata agli attori.Fino a che è arrivata la fine, hanno sparato musica a un volume sufficiente a coprire le chiacchiere, gli attori si sono abbracciati e, verso il pubblico, hanno fatto il classico inchino. Li ho guardati bene negli occhi: erano felici. Un po' timidi, come spesso accade a queste persone in carne ed ossa appena dismessi gli abiti di scena. Con quel sorriso imbranato e il passo, improvvisamente, incerto sulle assi di legno inchiodate a formare il palco. Mi sono immaginato la vita di un attore di Kampala, con le sue grandi difficoltà e qualche piccola soddisfazione. Mi sono immaginato lunghe ore in un capannone senza aria condizionata a provare li sketch davanti a fogli A4 rovinati e sottolineati mille volte. Mi sono immaginato l'ansia abitudinaria dei minuti appena prima di salire sul palco e la cena con tutta la compagnia alla fine dello spettacolo, nel solito ristorante che per l'occasione tiene la cucina aperta fino a tardi. Mi sono immaginato, in fin dei conti, una vita non così diversa da un attore di Milano.
C'è una canzone di Jovanotti che dice "il sangue è sempre rosso, indipendentemente dal colore delle vene". Anche il sipario.

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