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D(i)ario Argento, la mia storia d'amore con il Re del Giallo (N°7): Tenebre
Creato il 27 marzo 2015 da Giuseppe ArmelliniQuasi in montaggio analogico da Inferno passiamo a Tenebre.
Ma sarà davvero così analogico?
Ci sono giorni in cui ho fisiologicamente bisogno di guardarmi un film horror. È un bisogno fisiologico perché ha un effetto benefico sul mio sistema serotoninergico: ragazzi, per farla breve, gli horror mi fanno da antidepressivo.
Se avete il cuore spezzato cosa fate, vi guardate Amour?
Se siete depressi vi guardate Melancholia? (beh, quasi quasi)
Se siete nostalgici vi guardate Pollo alla prugne?
No, accidenti (e vorrei far notare che ho citato 3 film che adoro – i primi due sono tra i miei preferiti di sempre). Le soluzioni, in questi casi, sono due: o Woody Allen degli anni ’70 e ’80 come se non ci fosse un domani, o un bel film horror, possibilmente con i mostri (una cosa alla Carpenter, magari) o con tanto Sangue e Tensione, che è una delle coppie più belle del cinema. So bene che WA e l’horror non vanno a braccetto, ma, in realtà, condividono più di quanto si possa immaginare: entrambi, per funzionare come si deve, necessitano di cura per il dettaglio, inquadrature potenti (la faccia espressiva di WA o i volti deformati dall’orrore, tipo la nostra screaming queen del cuore ), sequenze che fanno dei mini-film a sè (i siparietti di WA come McLuhan che si materializza in coda al cinema vs. le sequenze di Morte, che, se fatte bene, sono dei corti-capolavori horror) e, infine, importantissimo, il divertimento. Perché se con Woody Allen è il divertimento a mischiarsi all’amarezza (pensate allo straordinario Harry a pezzi) e al dolcissimo cinismo di cui solo lui è signore e padrone, nei film horror è la Morte a mischiarsi con il divertimento (vedi Quella casa nel bosco, ma anche tutti i Darii, la saga dei Nightmare di cui il terzo è, secondo me, una notevolissima perla, gli esercizi ben riusciti della serie Masters of Horror – nota dolente per il nostro adorato Maestro, ma ne riparleremo a tempo debito).
Ecco, Tenebre è divertente, ben fatto, ha una trama che è un arabesco di follia (con qualche buchino di sceneggiatura che ci sta come un pregiato cesello, perché ci piace quando il Dario fa un po’ il contorsionista con il reale e il realistico) e ha delle morti che sono opere d’arte in una ricchissima galleria dell’orrore: il body count è di 12. Ben fatto Dario mio. Come avrete capito, per questa settima fatica del Maestro, ho una totale adorazione: i miei neuroni si sono uniti in plebiscitaria ammirazione la prima volta che l’ho visto (colpevolmente solo la scorsa estate e vi vedo già tutti con le bocche a “o” tipo pin up di Gil Elvgreen o con le mani premute su tali bocche, in preda allo sgomento. Purtroppo di errori ne facciamo tutti. Per fortuna, di errori così madornali, se ne fanno pochi nella vita) e, siccome sono estremamente nostalgica, lo guardo sia con la speranza di essere scaldata dalla familiarità materpaterna che Dario mi trasmette, sia con dei bellissimi ricordi nel cuore, sia con la consapevolezza che questo CAPOLAVORO (ebbene sì: al capolavoro!) horror è estremamente divertente.
Diamo il via alle macabre danze e balliamo al ritmo del tema che apre la storia (che si sovrappone alla breve intro, costituita da una voce gutturale che legge le inquietanti righe di quello che sembra essere uno di quei romanzi di genere che non toccherei manco con un bastoncino), Tenebre dei Goblin. Se già il binomio Argento-Goblin aveva fatto scintille in Profondo Rosso (vi state ancora inchiostrando addosso vero?), qui il tema super catchy (che fa sentire leggermente in colpa quando ti viene voglia di ballicchiare mentre stanno per uccidere uno dei personaggi) è pienamente in accordo con il periodo in cui Tenebre nasce: i primissimi anni Ottanta – con ancora tutto il retaggio del decennio precedente. Per essere una che negli anni Ottanta c’è nata – anzi, all’inizio di Ritorno al Futuro, se proprio vogliamo specificare quanto sia radicata la mia anniottantitudine – un pochino di scrupoli sull’estetica cinematografica di questa decade – lasciamo stare le spalline, i capelli cotonati e il glitter, per carità, facciamo finta che non siano mai esistiti e stop – me li faccio. Cioè, se è patinato, mi fa schifo. Giusto per mettere le cose in chiaro. Ma Tenebre fa quella meravigliosa magia che è attingere a piene mani dagli anni Settanta, che amo tantissimo e iniziare a integrare qualche elemento del decennio ancora sul sorgere (1980 proprio), per cui permane con forza il fascino del cinema precedente di Dario, con un’estetica che ogni tanto vira un po’ troppo sui toni pastello degli abiti (grrr), ma ce ne faremo una ragione.
In breve: Peter Neal è un autore di bestseller che vola a Roma, ospite dell’amica Jenny (Daria Nicolodi) per la presentazione del suo nuovo libro, Tenebre e, proprio mentre sta atterrando, una giovane taccheggiatrice che cerca di rubare, tra tutte le letture di una libreria, proprio il suo libro (i Karamazov no eh?), viene seguita fino a casa e brutalmente uccisa, con tanto di pagine accartocciate in bocca. Da qui si scatena una cascata di morti collegate a Tenebre e Peter Neal inizia a indagare assieme alla polizia, sia perché gli omicidi sono ispirati al suo romanzo, sia perché inizia a ricevere una pletora di telefonate inquietantissime da parte del killer, sia perché se non c’è un civile con doti artistiche che fa l’investigatore Dario non è contento. La trama è intricatissima, ci sono una miriade di personaggi importanti (un’ex moglie fuggtiva-persecutoria, non si capisce, interpretata da Veronica Lario) e io non voglio spoilerare, perché quando ho visto Tenebre era la prima volta in cui non avrei saputo dire chi accipicchia si celasse dietro gli iconici guanti di pelle nera. Quello che posso dire è: la sequenza in soggettiva dell’omicidio della coppia di lesbiche, con in sottofondo la musichina catchy, è perfetta. Ci sono i long take, c’è quella magnifica alternanza lama-volto impietrito-braccio che si leva per colpire la prima ragazza e il sangue che schizza sul bianco della maglia è pura magia horror e la morte della seconda (che non sa assolutamente agonizzare come si deve, santo cielo, sta propensione per gli attori cani Dario non l’ha ancora persa, a parte Daria Nicolodi, Karl Malden e Jessica Harper, li va a scegliere con una cura inversa pazzesca), con la testa che sfonda il vetro dopo essere stata colpita (a Dario piacciono le persone che sfondano i vetri, dopo Suspiria e Inferno non poteva fermarsi; e nemmeno noi) rendono tutta la sequenza dotata di un ritmo perfetto e assolutamente mozzarespiro.
Altro momento geniale è costituito da una catena di tre morti: Maria, la giovane figlia del proprietario dell’appartamento dove alloggia lo scrittore, viene inseguita da un dobermann che la attacca con ferocia e la ferisce, costringendola a rifugiarsi in una casa. Arrivata in quella casa, Maria si accorge che è l’abitazione del killer. Tutto questo con la tensione di lei che viene tormentata dal cane per un lasso di tempo inestimabile e, intanto, vede le foto raccapriccianti delle scene del crimine. Dario costruisce un impianto tutto suspence che non ci fa tirare un sospiro di sollievo finché la ragazza non muore. Che è brutto se ci pensate, quando ci sono queste sequenze che sono angoscia pura, al punto da farci sentire sollevati con la morte del personaggio, paradossalmente. Proprio perché è una tortura vederlo agonizzare. Da qui nella stessa villa ci sarà un’altra morte fondamentale con tanto di accetta e una terza, a questa strettamente legata, che porterà alla risoluzione del tutto. Ma non prima che il personaggio della ex moglie di Neal, interpretata da Veronica Lario, muoia male. Malissimo, con tanto di mano mozzata, schizzi di sangue a ventaglio sul muro bianco che dopo assomiglia a una versione colorata di The deep di Pollock, urla e colpi di accetta con suono da conficcamento nel torace (sequenza tagliata quando il film venne trasmesso sulle reti mediaset – ma perché poi? Non era neanche terribile come urlatrice), una morte raccapricciante che genera il terrore in Jenny – qui Daria Nicolodi si merita il titolo di screaming queen di tutti i tempi.
Torna anche la musichina da trauma infantile, che riconferma il nostro adorato Dario come juke boxe del trauma – questo è infatti un altro capitolo nel manuale dei film del nostro regista horror preferito che attingono a piene mani dal serbatorio delle turbe psichiche a esordio giovanile (non vorrei andare sul didascalico, ma pensate al non riuscitissimo Trauma). Questa sorta di fissazione per questa tematica è come ritornare a casa ogni volta, ci fa sentire bene, ci fa sentire al sicuro, come quella volta che si è bruciata la lampadina del bagno e mio padre, che odia fare i lavori di casa, non l’ha cambiata per 8 mesi. Io mi sentivo al sicuro quando accendevo l’interruttore e restavo al buio e andavo a smignolare contro uno spigolo. Questo per fare un esempio di roba brutta che è familiare. Il trauma è brutto, ma in un film di Dario Argento è un porto sicuro in cui riporre le nostre aspettative in una risoluzione finale sempre più intricata, funambolicamente protesa a farci diventare matti e a farci arrivare alla fine del film dicendo “accipicchia Dario, mi hai preso per i fondelli per tutto il tempo e mi è piaciuto”. Ecco. Dopo il calo di fiducia dovuto a Inferno, Dario, con Tenebre, mi ha totalmente riconquistata.
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