Orami i grandi fasti del Maestro sono alle spalle. Ma di questo film non dimenticherò mai i mitici aghi negli occhi anti sbattimento di palpebra ;)
E ora la solita appassionata, competente (anche se di parte...), personale (c'è anche la mamma stavolta) e originalissima Miriam
(mammma mia quanto è che non vedo e recensisco veri horror... Solo 3,4 quest'anno, devo recuperare)
Ho rivisto Opera con mia mamma. Era venuta a trovarmi e le ho detto: mamma, devo scrivere un post su Opera (forse l’ultimo film ben riuscito all’interno della sequenza di Dario, cioè una sfilza di capolavori horror senza sbagliare un colpo (Inferno fa interferenza, devo ammetterlo).
Ecco. Mia madre sicuramente è stata, nel corso degli anni, temprata alla visione di sgozzamenti, torture, sequenze di suspense e giù di lì: il grosso del tempo da ragazzina l’ho passato in compagnia del cinema e, una buona fetta delle mie visioni preferite, erano i film horror. Tiravamo giù le tapparelle quando c’era il sole o gioivamo nei giorni di pioggia (con i temporali anche meglio) e guardavamo quelli che, da piccola, chiamavo i film “ di spavento di paura”. Eh, siamo stati tutti bambini - alcuni di noi sono ancora là. Quindi mi fa compagnia mentre guardo Shining, Rosemary’s baby, viene a conoscere il dottor Caligari che mi piace tanto, si subisce i pipponi adulatori sui vari Suspiria ecc., si rifiuta di vedere L’esorcista e cose così. Ed è a lei che devo il mio affetto per Dario: se non mi avesse detto che da ragazza aveva visto 4 Mosche e che le era piaciuto un sacco, forse l’avrei visto in un altro momento, l’avrei negletto. Forse si sarebbe realizzata una situazione raccapricciante alla
Ma mia madre, a differenza mia, non capisce il fascino del gore: cioè, le sta benissimo che in un
horror ammazzino un personaggio, ma non comprende l’accanimento sul cadavere e si anima in una serie di “sì, abbiamo capito dai” o “guarda che è morto” (parlando con l’assassino) e giù di lì. Il meglio è quando ci sono scene come quella di Opera, in cui l’omicida pianta le forbici in gola alla vittima, ma dal basso verso l’alto, così da svettare sul palato attraverso la bocca aperta. Io dico: tocco di classe. Mia mamma si gira, mi guarda e dice: Miri, scusa ma questo è un po’ trash (colpa mia pure l’utilizzo a sproposito di “trash”, che da teen tutto quello che era kitch, non mi piaceva, faceva proprio schifo, piaciucchiava con un po’ di sospetto era tutto “trash”, come da pattern adolescenziale che ti agganci a un’espressione verbale scemina e ti ci attacchi tipo coperta di Linus quando non hai più l’età per averne una ma ne hai ancora bisogno).
Tutta questa intro per dire che vedere il film con mia mamma, oltre a essere stata un’esperienza spassosa e amarcord, mi ha fatto notare cosa mi fa saltare sul divano e cosa, invece, lascia indifferente o perplessa mia madre. Ripercorriamolo in una passeggiata sul viale dei ricordi che, ahimè, inizia a coincidere con il viale del tramonto, perché, dopo Opera, la qualità della filmografia argentiana inizia a precipitare rovinosamente verso il baratro, dritto in bocca a Dracula 3d e alla terza madre. Che indigestione di schifezze.
Primo: l’accanimento nelle sequenze di morte: qui è come un’opera d’arte. Scusate: se Bacon (okay, io non me la sento di paragonarli, sia chiaro, Bacon è la Perfezione) non si fosse impegnato nel deformare, creare vuoti e pieni, superfici concave dove ce ne aspettiamo di convesse e di farlo con dei colori che deviano dalla norma dell’incarnato senza, però, spezzarne completamente il legame, beh, ragazzi, non sarebbe stato Bacon. Se usata bene, la rappresentazione manierista di un qualcosa, che sia l’essere umano, l’anima, la mente o la morte in un film horror, funziona. Se poi è vero ciò che diceva il buon Popper, che la morte è oscena nel senso che deve stare fuori scena, io credo che, nell’horror, questa regola si applichi nella scenografizzazione (so che non esiste, fate come si fa con i pazzi e datemi ragione) della stessa. Ma idea mia, né. E poi, scusate, anche se tutto questo non fosse vero: queste sequenze sono divertenti (che comunque secondo me si riaggancia al discorso Popper, ma va beh).
Poi, le soggettive dell’assassino: io, ogni volta, sono attanagliata dalla tensione e mi sento scomoda nella posizione di occhi dell’omicida. Colgo però anche le sfumature stilistiche, la camera instabile che ondeggia un po’ nella parte antecedente all’omicidio e la dinamica potenza della scena della morte vera e propria.
Terzo: il fatto che Dario scelga sempre di ambientare nel mondo dell’arte o di coinvolgere addetti ai lavori nei suoi film mi piace da impazzire. Evidentemente per lui l’arte era molto importante (poi, vedendo la seguente filmografia, scusate ma l’arte ha subito tradimenti plurimi) e trovo che riesca a fare buona ironia (quasi sempre) degli stereotipi legati al mondo dell’arte, soprattutto relativamente alla personalità dei protagonisti, che vagano tra il metodico e l’isterico senza soluzione di continuità in un bi/tripolarismo un po’ ingenuo e stigmatizzato ma carino (pensate a Profondo Rosso, che ogni tanto le conversazioni tra i protagonisti erano da mettersi le mani nei capelli e guardarsi attorno arrossati dalla vergogna, ma ci sono pure perle come Marc Daly che salta per un soffio di vapore e inveisce contro la macchina del caffè, solo perché è nevrotico e, da buona nevrotica, l’ho adorato).
Quarto: le sequenze di “sto per morire”-ma-invece-no. Cioè, il personaggio perseguitato tipicamente si trova sempre in una situazione terribile. A una certa inizia a rischiare di morire con una frequenza che se fosse sonora sarebbe assordante. Ciascuna di queste sequenze, con gli sbalzi tra soggettive dell’assassini e primi piani sul volto terrorizzato della protagonista, Betty (Marsiliach), con la musica (la musica che usa per rilassarsi quanto è tesa, che poetica ironia, oh Dario!) che salta e scoppia in fragore in momenti di tensione già estrema, scusate ma mi fanno rimbalzare sul divano. Ad esempio, la sequenza in cui la giovane cantante d’opera resta in casa sola con l’assassino, che ha appena ucciso un agente di polizia e la povera Daria Nicolodi (con un proiettile nell’occhio, efficace ed elegante, come sempre) è fenomenale. il ritmo è serrato, ci sentiamo oppressi, soffocati, la ragazza si salva strisciando nei condotti dell’aria aiutata da una bambina che abita in un appartamento vicino. Che ansia. Da asma.
Quinto: il trauma. Il trauma ce lo metto perché sapete cosa penso a riguardo, oramai. Qui, purtroppo, Dario va un pochino sopra le righe e di traumi ce ne mette due, un po’ buttati lì alla cdc (non è il centro controllo malattie americano, no), non so come altro dirlo. Nel senso: il trauma di Betty, che da piccola (SPOILERSPOILERSPOILER) vede la madre comportarsi in modo provocatorio e spietato, la porta a sviluppare un problema di natura sessuale: a differenza di quanto si dica sui cantanti d’opera, è frigida. E, alla fine, si ricongiunge con il mondo in un solipsismo poetico buttato lì di punto in bianco che mi lascia perplessa ma ci può anche stare. La perplessità è dovuta al fatto che: hanno appena tentato di ammazzarla per la centesima volta, hanno ucciso il regista che l’aveva resa famosa e che evidentemente ne era innamorato e, dopo cinque minuti, si rotola nell’erba accarezzando fiori e insetti a là Phenomena e decidendo di restare da sola, immersa nella natura per sempre – non vi dico la rezione di mia madre, che, tra l’altro, ormai rinnega anche di aver apprezzato 4 Mosche dicendo “non mi ricordo, ah sì? Ti ho detto che era bello?” (evidentemente non è “una di noi”). Ma va bene, dai, okay, Dario: la purezza dell’Arte, va bene, ho capito, ci sta. Ma il trauma dell’assassino, la cui mancata salute mentale ci salta all’occhio quando Dario mette dei frame di un cervello che pulsa e fa tu-tum, è ben meno efficace. Detto ciò: il suo trauma spiega benissimo il sadismo con cui non solo uccide le vittime (si sente pure la cassa toracica che viene tagliata, nella sequenza della costumista - ben fatto Dario!), ma soprattutto il modo in cui tortura la cantante costringendola a guardarlo uccidere, proprio come la madre di lei aveva fatto con lui, rendendolo un mostro. L’idea è sempre in linea con la creatività di Dario, ma la realizzazione del finale è un po’ approssimativa e questo mi è dispiaciuto un po’, perché da quando l’assassino viene individuato (i corvi!) fino alla conclusione, il film, che aveva tenuto un ritmo serrato, una dignità stilistica fortissima e un impatto scenografico molto barocco (bellissimo), perde forza e scivola via, lasciandoci un retrogusto di delusione, soprattutto rispetto alla prima ora e mezza. Che è un po’ la stessa cosa che accade quando si vede Trauma, o il Cartaio, o la Terza madre, o Jenifer. Si scivola nel Dario blues, un placcaggio emotivo, una rotolare depressivo nostalgico e amaro, memori del fatto che Dario, per 17 anni, è stato capace di grandi cose.