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DIARIO DALLE ANDAMANE/ In bus attraverso la foresta degli indigenI Jarawa
Creato il 17 marzo 2015 da MariagraziacoggiolaDiglipur (North Andaman), 17 marzo 2015
Sono partita alle 4 di mattina da Port Blair con un bus privato diretta a Diglipur, l'ultimo centro urbano a nord dell’arcipelago oltre che terza citta’ piu’ grande dell’arcipelago. Per arrivarci si percorre un pezzo della ATR, la Andaman Trunk Road, ovvero l’arteria principale che va da Port Blair a Diglipur per 325 km, chiamata la ‘famigerata strada’ perche’ attraversa il territorio della rara tribu’ dei Jarawa. Questi indigeni, che sono i piu’ vicini a Port Blair tra le tante comunità tribali andamanesi, sono stati in passato vittime del cosiddetto ‘safari umano’. Ovvero di turisti che con le jeep andavano a fotografarli come animali allo zoo. In particolare, aveva creato un grosso scandalo un video di una guida turistica o un tassista, mi sembra, che faceva ballare una donna indigena di ballare in cambio di soldi davanti a una comitiva di turisti. All’ingresso della riserva c’e’ in effetti un cartello che vieta qualsiasi "contatto" con i Jarawa in quanto tribu’ protetta. L’accesso e’ limitato a bus e veicoli turistici, che devono viaggiare però in convoglio, scortati dalla polizia per tutto il tratto di strada che attraversa la foresta dei Jarawa. Ogni veicolo deve essere registrato e cosi’ anche gli stranieri. Ogni giorno ci sono quattro partenze dei convogli, il primo alle sei e l’ultimo alle 14.30. Al di fuori di questi orari, in teoria, non passa nessuno.
Dopo gli scandali, sembra che le autorita’ delle Andamane siano molto attenti a far rispettare le regole. Ovviamente, con la complicita’ dei tassisti, secondo me e’ possibile incontrare un Jarawa. Dei giornalisti francesi lo hanno fatto l'anno scorso, ma sono finiti nei guai.
Dal finestrino del mio autobus ho sbirciato per tutto il tragitto se per caso spuntava fuori un indigeno dal fitto della jungla... Veramente mi sono sentita come quando si e’ nelle riserve delle tigri e si cerca di avvistare un felino. Oppure quando in Cisgiordania salivo su un bus dei coloni ebrei, scortato dalla polizia, che attraversava i territori palestinesi.
Mentre aspettavano la partenza del convoglio, un indiano, di quelli della middle class (che si possono permettere le vacanze alle Andamane, abbastanza costose rispetto alle altre mete), mi ha spiegato che ci voleva la sicurezza perche’ i “jarawa tirano le frecce”.
Mi sono accorta quanta ignoranza c’e’ tra gli indiani sulle popolazioni tribali. Non mi stupisco quindi che li trattano come animali allo zoo. D’altronde anche gli inglesi, quando sono venuti qui per primi, facevano lo stesso, se non peggio, perche’ li hanno cacciati via per costruire la colonia penale, le loro ville e uffici a Port Blair e dintorni.
Uno del posto, che era seduto vicino a me, mi ha detto che i jarawa, simili ai 'pigmei' per la loro statura, sono rimasti appena in 50 e che il governo passa loro ogni giorno viveri, generi di prima necessità e anche indumenti. Quindi probabilmente non vivono più di caccia o pesca. Certo la foresta dove abitano e’ impressionante, e’ giurassica...potrebbe sbucare un dinosauro da un momento all’altro. Mentre il bus si inerpicava ai 30 all’ora per la strada sconnessa, tutta a tornanti e saliscendi, mi chiedevo se veramente gli uomini e donne che ci abitano sono contenti di non avere contatti con l’esterno. Oppure sono volutamente tagliati fuori dal mondo. Mi veniva voglia di far cadere dal finestrino un biglietto con un numero di telefono...magari di qualche associazione di difesa dei diritti dell’uomo. Ma poi, dove lo trovano un telefonino? Ammesso poi che sappiano leggere e che conoscano altre lingue oltre che la loro. Mi sarebbe piaciuto allora lasciare qualcosa per informarli sul mondo esterno. Che ne so, un video, sui posti piu’ famosi del pianeta o sugli ultimi duemila anni di storia.
Insomma, io rispetto il diritto degli indigeni a vivere nelle proprie terre, quindi e’ giusto che non si tocchi la foresta dei Jarawa...ma sul proibire contatti esterni, mi sembra un po’ come rinchiuderli in una gabbia per la soddisfazione degli antropologi. Insomma dove finisce l'esigenza di proteggerli dalle influenze esterne e il loro sacrosanto diritto a progredire. Anche noi a un certo punto siamo usciti dalle caverne.
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