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Diario di Lola, diciannovesimo giorno, tenebre

Da Bibolotty

Diario di Lola, diciannovesimo giorno, tenebre Foto di Eugene Recuenco
La notte svela sospiri e lamenti, nasconde storie e ricordi che si animano solo davanti agli occhi di chi è disposto a guardarli. Le parole non dette o sussurrate appena, ripetute nel caldo dell’astio covato da tempo con le voci dell’odio che si risveglia per guardare il rimpianto e gli spazi vuoti dell’amore inutilmente atteso, s’intrecciano, per arrivare sin qui, in questa stanza, tra me e la finestra aperta sul buio. Nessun altro sa. Nessun altro ascolta. La madia sottile accanto al camino fa finta di niente, e anche il divano sembra occuparsi solo di me e del mio peso assente, e così le due poltrone dai braccioli di legno che guardano altrove. Solo le tende non ignorano il coro funereo, e si levano a mezz’aria restandoci un po’, animate come da gigantesche mani o corpi invisibili, precipitando poi di nuovo in basso, danzando la notte in un ritmo mortale. La notte cancella i contorni delle cose e i viventi, all’imbrunire, si confondono con le sagome opache di chi vaga e cerca di risposte, di chi ancora tenta di aprire la porta di casa, di chi pensa di essersi addormentato un attimo e basta, e che l’incubo presto finirà. C’è chi sul marciapiede sta fermo da anni e ancora si domanda dov’è la sua ombra, sua madre o l’uomo cui stringeva la mano solo un attimo prima che si facesse buio. Ossa consumate da tempo aspettano di svegliarsi e di trovare l’umano sorriso lasciato appena qualche ora fa. Facce cerulee e corpi mutilati, pelle bruciata e abiti a brandelli, cercano una direzione e una guida. In questo spazio sospeso abitano tutti quelli che si sono perduti, che non hanno capito, che si sono distratti esalando l’ultimo respiro, che hanno lasciato fuggire via il corpo eterico per attaccarsi alle voci di chi li piangeva. Questi che ascolto sono i lamenti di chi è rimasto nel piano di mezzo, su un’autostrada che finisce in una vallata sospesa nel nulla, sul baratro dell’infinito e dell’eterno ritorno. E posso vederle ovunque le loro facce scarnificate, i volti trasfigurati dal dolore inespresso, dalla vecchiaia respinta, dalla sorpresa di una morte che si è cercato di rimuovere a tutti i costi, allontanata di continuo, minimizzata e ridotta, donata ad altri e con generosità sorprendente, nascosta dietro la caparbia e cieca affermazione quotidiana del proprio io, soffocata sotto un delirio d’onnipotenza, puerile, dietro l’accumulo di oggetti, lauree e riconoscimenti, feste, bagliori e chiasso. Ma è andata così, ci ha presi alle spalle, ci ha sorpresi in un attimo lasciandoci in bilico. Per Marta, invece, la storia è andata diversamente.
Quella che mi ha aperto la porta non era la donna dal volto scavato e dalle mani artritiche che avevo intravisto giorni fa apparire e scomparire dietro le tende. Marta è una quarantenne bruna, alta e magra. Tremendamente magra per essere stata una cantante lirica. Le ho domandato subito come mai lei riuscisse ad aprire la porta e a versarsi da bere: basta non pensarci, mi ha risposto soppesando con cura le parole, pronunciandole con una dizione un po’ teatrale, come se quelle fossero le uniche giuste da usare. Ci ho provato subito anch’io, e tutto quel ridere ai miei goffi tentavi di agguantare oggetti mi hanno umanizzata almeno un po’. Lei è rimasta qui perché suo figlio è tenuto in ostaggio. Il suo rapitore, è Vince Lalama. Non potevo crederci, e ancora stento a farmene una ragione, ma questo mondo parallelo non è niente affatto dissimile dal nostro. Anche qui ci sono ladri e malfattori, imbroglioni, gente losca, solo che qui si vendono e comprano anime come ai mercati generali, sottraggono sogni e virtù a chi è già da questa parte ma non riesce a fuggire. Loro hanno un’arma, conoscono bene le debolezze dei vivi, e le usano per tenere sotto scacco i già morti. È durante la notte, è nel buio, che la morte tasta con la sua mano adunca la nostra vita, è attraverso il nostro respiro profondo che l’oblio entra in noi e ci sottrae forza e vitalità. Lalama ha su di me mire oscure che Marta non mi ha potuto dire per non protrarre più a lungo l’agonia di suo figlio che Vince, grazie alle sue conoscenze tra qui e l’altrove, cercherà di tenere in ostaggio il più possibile. Marta conobbe Vince in una notte di luna piena. Cantava a Sanremo, al Casinò, e lui con la sua due cavalli bianca, che nelle notte sembrava una scia luminosa tra le stelle, la convinse per un viaggio improvvisato a Montecarlo. Erano gli anni ottanta e Vince aveva all’incirca l’età che dimostra oggi, quando il suo viso non è trasfigurato dalla morte. Ha fatto una pausa sorvolando leziosamente sulla sua di età, alzandosi dal divano in una piroetta che è finita nei tre passi che le servivano per arrivare al mobile bar. Si è versata qualcosa di forte e ha levato il bicchiere al mio indirizzo. Tornata al divano ha passato la sua mano, forte e gelida di morte, sulla mia. Conosceva bene mio padre, e Olimpia.  Quella in cui incontrò Vince, era una di quelle notti in cui sentiva che tutto era possibile e che dagli anni a venire avrebbe ottenuto il meglio. Le strade erano tutte spianate lì davanti ai suoi occhi chiari, larghe e lunghe, dritte, autostrade deserte e assolate che avrebbe percorso senza trovare ostacoli. Era una di quelle notti d’inizio estate in cui avrebbe voluto correre a perdifiato verso il mare, guardare sorgere il sole e fissare il punto d’arrivo dei suoi sogni proprio lì, sulla linea dell’orizzonte. E lì al Casinò di Montecarlo sembrarono realizzarsi tutti e di colpo i suoi sogni, e il ventitré vinse, vinse tanto, vince troppo, vinse quanto mai nessuno avrebbe sognato. Accadde anche che lei e Vince fecero l’amore e stavolta, per glissare sula faccenda, è andata alla finestra per spalancarla. Solo due mesi più tardi, Marta aveva già preparato i documenti per ipotecare la casa. Visti i prestiti che chiedeva in giro, le fughe improvvise verso destinazioni ignote, la voce fuori forma per gli esercizi mancati, le notti insonni a corrugare la fronte lì al tavolo verde, a torturarsi mani e fegato per quell’altro milione perso nel nulla, lasciato al croupier dallo sguardo impassibile, lasciato lì assieme alla vergogna che non si può non provare davanti agli sguardi di compassione, Marta stava compromettendo anche la carriera. Davanti a quel ventitré maledetto, a quel numero bastardo che non voleva più uscire, che si nascondeva, si negava, passando da un tavolo all’altro e che si confondeva, mischiandosi con le carte del Blak Jak o chissà dove, lo sguardo vivace di Marta era invecchiato di colpo. Perso il vigore di un diaframma ormai stanco di pianto, persa la passione per il canto, che vuole impeto e domanda forza. Lalama, da amante focoso si era trasformato in breve in aguzzino pressante e poco loquace, e gli interessi sui prestiti, aumentavano di giorno in giorno in modo esponenziale. Lui rideva alle sue richieste di proroga, l’affrontava in pubblico, la aspettava fuori dal teatro, si metteva in prima fila per torturarla con la sua presenza minacciosa. Un giorno però, lo sorprese accanto alla sua auto scoperta in attesa di qualcuno, vicino alla nostra villa. Fu un caso che dopo nemmeno un minuto, in quel primo pomeriggio torrido, vide Olimpia raggiungerlo chiamando il suo nome. Seguì l’auto finché non sparì dietro gli alberi della villa comunale. Erano amanti. S’informò in giro e scoprì che Lalama riforniva mio padre di pietre preziose provenienti da strani traffici, seppe anche che era stata Olimpia stessa a presentarglielo. A questo punto, Marta si è versata di nuovo qualcosa di forte. Poi mi ha guardata a lungo. Ti vidi assieme a lui una volta, assieme a tuo padre e a Vince, in un bar del centro. Ed è lui, Lola, che abita da sempre i tuoi incubi, lo so. L’uomo dai calzini verde petrolio che fuma sigarette nel buio lo ricordo da sempre, è da quando sono bambina che nella notte spalanco gli occhi nel buio e sento puzza di fumo. Mi bracca da allora, da quando sono bambina. E forse erano suoi i passi che scandivano la mia veglia forzata sul cuscino, sue le dita macchiate di nicotina che mi sfioravano il viso quando mi pareva che il respiro mi mancasse all’improvviso. Marta raccontò tutto a mio padre. Ancora oggi non se lo sa spiegare quel gesto. In realtà ha balbettato qualcosa sulla gelosia, insana di per sé e irrazionale nel suo caso, sulla malattia che colpisce molte donne, soprattutto quelle seducenti, che impazziscono del tutto quando incontrano il tizio sfuggente, quello che non le vuole e che diventa oggetto di un desiderio ossessivo. Era una storia così assurda da sopravvivere alla sua morte. Era una storia così folle da finire in tragedia. Mio padre affrontò Lalama lo minacciò dicendogli che tra lui e il gioielliere rispettato, il braccio della legge non avrebbe esitato un secondo a colpire uno con i suoi precedenti penali e che sarebbe stato logico anche credere nella buona fede del professionista piuttosto che dello strozzino. Lalama lo colpì alle spalle e gli rubò l’incasso della giornata per far credere a una rapina. Ma quella notte stessa, Marta lo attendeva sotto casa e lo colpì con ventitré pugnalate al petto. Le sue lacrime erano ghiacciate, come le mie che adesso non so veramente come farò a uscire da qui, da questo mondo senza cielo e senza luce, da questa società parallela regolata da leggi che non conosco. Poi, Marta cercò di rifarsi una vita. Riprese a cantare e sposò un brav’uomo, un poliziotto, caso strano lo stesso che si era occupato dell’omicidio di Vince. Quando una sera, suo marito tornò a casa felice di poter finalmente riaprire quel caso e con le nuove prove del dna prendere l’assassino, Marta decise di non aspettare. Nel raccontarmi di questa beffa del destino, un livido le si andava tatuando tutto attorno al collo lungo e sottile, proprio lì, in quell’istante, davanti a me, come se l’evocazione di quella giornata infausta si manifestasse sotto il mio sguardo sorpreso. In realtà non trovarono tracce del mio dna, ha detto infine intonando una risata da brivido, E mio marito non ha mai saputo il perché del mio suicidio. Allora sono rimasta qui con loro, con lui e mio figlio che adesso, in coma da due anni per un incidente d’auto, è ostaggio di Lalama e della sua acrimonia verso l’umanità. Ecco perché devo stare lontana da lui. Io, secondo Marta, avrei più di una via d’uscita. Io, ha aggiunto toccandosi la gamba sottile da sotto in su, come per aggiustare un’invisibile calza un po’ scesa, devo soltanto ricordarmi di quel giorno e dell’incidente, cercarmi e ritrovarmi. Di più non ha saputo dirmi. In questo istante, Max ha aperto gli occhi e il giorno ha rischiarato le tenebre. Corro a dargli il buongiorno. Magari può sentirmi.


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