Per fortuna capita l’eccezione, che si intrufola nel bel mezzo di un viaggio, in una sera a ridosso della mezzanotte: aperitivo di classe, atmosfera elegante, luci soffuse, in un rifugio lontano dai bagordi del weekend. Accade che Gabriele, il pianista in questione, ti guarda diritto negli occhi, estrae fuori un pezzetto di te e ti dedica il brano giusto. Sì, perché il talento di chi fa questo mestiere non è banalmente amalgamare canzoni ed atmosfera, ma capire con un’occhiata chi ti sta di fronte. Me lo fece notare tanti anni fa anche Eduardo De Crescenzo, dopo una splendida live session, perché i suoi esordi erano legati al pianobar, per l’appunto.
Tornando a Gabriele, la canzone in questione è “My Way” e così lui te l’allunga con vezzi da Elvis, senza rinunciare al monito indiscutibile del “date a Frank quel che è di Sinatra”. Fuori c’è foschia, silenzio, un paesaggio dormiente; dentro c’è quel non so che in più. E ti chiedi: Perché il pubblico non dovrebbe sforzarsi di andare oltre l’apparenza del musicista?. “Quando un musicista ride è perché dentro sente una strana gioia vera e scopre che la sua angoscia è buona perché è la sua tristezza che suona”, cantava Enzo Jannacci. Gabriele imparò questa lezione, quando nell’ ’89 si fece tutto d’un pezzo Roma-Milano per festeggiare allo Smeraldo trent’anni di canzoni del cantautore milanese.
La “strana gioia” a cui fa rifermento Jannacci è forse proprio quella che tiene testa alla memoria: Gabriele che canta una canzone, tenendo per mano per l’ultima volta sua madre; Gabriele che sgattaiola tra le note musicali, facendo le fusa ai giorni ritrovati con suo padre; Gabriele che girovaga per la sua Roma, ripensando a tutti viaggi fatti per mettersi alla ricerca della felicità.
Non è un eufemismo. Il pianobar non esiste più, ma torna ad esistere ogni qualvolta un viaggiatore qualunque trova nel suo vagabondaggio “un musicista che ride e la sua angoscia che suona”.