Il viaggio comincia nel disorientamento linguistico. Nella Polonia orgogliosa del 2011, non ci sono indicazioni stradali in inglese. Tutto in polacco. Fortunatamente il popolo di Chopin e Karol Wojtywa, è disponibile e gentile. Ti aiuta e ti fa prendere gli autobus e i treni giusti per arrivare nella copernicana Torun. I vagoni sono simili a quelli italiani: l’odore è lo stesso, la tappezzeria identica. Cambia la gente che hai accanto, mutano i paesaggi che vedi dal finestrino. Seduto vicino alla versione polacca del Benjamin Linus di lostiana memoria e ad un ragazzone biondo di ritorno dalla Scozia, osservo scorrere sotto i miei occhi pianure su pianure con qualche albero spoglio ad inframmezzare il paesaggio. Dopo un’oretta di treno, iniziano a vedersi lande verdi tinte dal bianco della neve e le tipiche casette polacche con mattoncini rossi e tetti di legno. Ad accogliermi alla stazione c’è Joanna, timida ragazza polacca, futura sociologa, che per questi mesi sarà la mia tutor. Dopo avermi accompagnato in quella Via Gagarina che sarà la mia casa per quattro mesi e mezzi, salutandola con un Thank you for all, lei mi ricorda che nel dormitorio degli studenti erasmus dove alloggio, chi sta alla reception non parla inglese. Quindi mi insegna come si dice stanza n. 705 in polacco e se ne va.
Appena arrivato al mio piano, l’accoglienza è tutta spagnola. A Torun infatti si riversano colonie di spagnoli, nei giorni seguenti scoprirò che ci sono anche tantissimi turchi, per studiare. Alle domande sul perché hanno scelto la Polonia, molti rispondono dicendo che qui la birra costa poco. L’Erasmus ha tante facce: trovi gli spagnoli che preferiscono però presentarsi come baschi, galiziani o catalani, fai amicizia col gigante tedesco che studia le lingue slave perché i suoi genitori hanno vissuto in Kazakistan e che lui è venuto qui perché suo nonno era polacco, conosci i turchi che fanno gran confusione quando parlano e le turche attente allo smalto sulle unghie ma dalla favella facile, presti attenzione allo sguardo delle bulgare che non si integrano, non spiccicando una parola d’inglese.
E poi ci sono i polacchi che è bene distinguere in due parti: in una c’è la vecchia generazione, molto riservata, che ha conosciuto il comunismo (ma non ne vuole parlare assolutamente) e che ti guarda con diffidente disponibilità; dall’altra c’è la gioventù polacca che sa bene le lingue, che ti sorride ad ogni richiesta, che ti aiuta in ogni cosa, che sa stare in gruppo. Dalla mia tutor Joanna alle varie Marta che si incontrano tra i corridoi universitari, passando per il buffone di turno che si crede Johnny Depp per una rattoppata somiglianza con Jack Sparrow, finendo con Marlena, spigliata ragazza dagli occhi azzurri che parla l’italiano, i ragazzi si mostrano aperti e molto europei. Europei, sì. Un’idea, troppo spesso buttata lì dalla politica di turno, che si può afferrare solamente quando sei immerso in un contesto internazionale e multiculturale come quello offerto dal Progetto Erasmus. Il polacco tra tutti i popoli di matrice slava si considera europeo: diffida dai russi, considerati rozzi, e allontana assolutamente ogni paragone con i cugini dei Balcani. Si sente europeo perché ha una storia, sebbene tormentata tra nazismo e comunismo ma con la fierezza di avere ospitato Solidarnosc, una cultura (è la terra di Copernico, Chopin e Papa Wojtywa, per citare i più famosi), una lingua e un modo di vivere di cui vanno orgogliosi.
E poi come ogni europeo che si rispetti ha il problema dello straniero che viene da lontano. Parlando con Marlena in un bel sabato sera, la discussione cade sugli asiatici. Lei mi dice che in Polonia arrivano anche tanti cinesi e giapponesi ma che lei non sa distinguerli. A quel punto, giocando consapevolmente con gli stereotipi che sono un po’ l’anima di quando vivi all’estero, le ho insegnato come fare a differenziarli. Se arrivano in gruppo, scattano fotografie e dopo una giornata vanno via, sono giapponesi. Se invece si stanziano, aprono il negozio e vendono dai vestiti alle cose di casa, sono cinesi. Indottrinata sui misteri dell’Asia, Marlena ora mi deve spiegare perché, oltre alla statua di Copernico, ci sono un cane e un asino come monumenti simboli di Torun.
(Alessandro Buttitta)
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Scritto da Nino Fricano il 25 febbraio 2011 alle 17:27 | Creazioni, Sguardo dal sud. Segui i commenti con il feed RSS 2.0 Qui trovi tutti gli articoli di Nino Fricano You can leave a comment, or trackback from your own site.