Postato il aprile 23, 2012 | CINEMA | Autore: Andrea Lupo
Un pugno allo stomaco e uno schiaffo alle coscienze ma anche una sensazione opprimente di impotenza, resa ancora più insopportabile dal fatto che l’Italia non è paese capace di elaborare un comune, e condiviso, sentimento di indignazione. Sono queste le sensazioni che suscita la visione di “Diaz- Don’t Clean Up This Blood”, esempio di cinema civile ed antiretorico, ideale complemento – insieme al recente “Romanzo di una strage” – della medesima riflessione sulla memoria collettiva del bèl paése, quella memoria fin troppo facile ad essere seppellita, ieri come oggi, sotto strati di ozioso qualunquismo e comoda rassegnazione. Cinema come atto politico dunque ma non nel significato ideologico del termine quanto piuttosto di quello civile o sociale. Nel film di Daniele Vicari infatti non vengono fatti né nomi o cognomi dei protagonisti (tutti noti, del resto, come da atti processuali quando non si tratti di personaggi già “eccellenti”) né tanto meno affiora una qualche presa di posizione politica sull’evento (la violenza dei black bloc, lontana dall’essere “ammorbidita ”, è un fatto già consumato alla vigilia dell’irruzione), ma prevale piuttosto l’aura di racconto “necessario”, un atto cinematograficamente dovuto tanto nei confronti delle vittime quanto di quella società civile (Forze dell’Ordine comprese) che non si riconosce, né mai si riconoscerà, in simili atti di bestialità da regime sudamericano. E che, soprattutto, ha il dovere “morale” di non dimenticare.
Vicari, evidentemente consapevole del fatto che un simile episodio è stato già setacciato al meglio dallo sguardo documentaristico delle tante videocamere presenti sul luogo, sceglie come strada cinematografica più confacente ai suoi fini quella del thriller urbano e del racconto polifonico. Incastona così l’evento fondamentale (sapientemente rinviato fin oltre la metà del film) dentro le altre microstorie meno eloquenti di coloro che diventeranno, loro malgrado, i protagonisti fondamentali e definitivi della vicenda. Agenti richiamati in servizio, vertici di Polizia in sospettoso fermento, manifestanti in procinto di trascorrere un’ultima notte prima del rientro, frammenti di quel lungo preambolo che anticipa la devastazione e che si scompongono e ricompongono dietro l’immagine di una bottiglia che torna ad infrangersi su un marciapiede, sintesi visiva di una provocazione insistentemente ricercata e procurata ma anche metafora esplicita di quel pretesto elevato fino ad assurgere a ragione giustificativa. Se la scomposizione attraverso i differenti punti di vista anticipa (ed amplifica) ancor di più lo smarrimento che accompagnerà gli eventi successivi, la scelta di affidarsi a un coro di protagonisti multietnici (la pellicola è per ¾ sottotitolata e parlata in diverse lingue) non può che sottolineare ancora di più quel senso di tragedia “globale” che ha meritato, non a caso, l’appellativo di «più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese Occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale» da parte di Amnesty International.
La tensione accompagna gesti apparentemente insignificanti (la scelta di andare a fare una visita al cimitero, il desiderio di fare l’amore, una birra consumata fuori dall’edificio), lontana dall’essere stemperata dal clima “leggero” che regna all’interno della scuola e dalla ostentata “rilassatezza” degli agenti all’indomani del difficile confronto durante il G8. Abilmente il regista rappresenta questa apparente “normalità” contrastandola attraverso il progressivo e sotterraneo profilarsi di un disegno di pura rappresaglia (le molotov ritrovate altrove e poi ricollocate durante il blitz, la scelta di evitare l’irruzione non offensiva) che ancora oggi non ha trovato il suo artefice “politico” se non una ragion di Stato “deviata”. Quindi, dopo l’attesa, l’irruzione. Violenta, violentissima, coi colpi di “tonfa” a fare da commento e le urla di dolore come un controcanto alla sorda determinazione degli agenti. I denti saltano e gli arti si spezzano (anche quelli di giornalisti, gracili ragazzine ed anziani), le costole si infrangono e, ancora peggio, crolla d’un colpo la fiducia in coloro che dovrebbero tutelarci, tutti galvanizzati dallo stesso sentimento ferino, fermi ad un livello primordiale di reazione ed incapaci di fermarsi.
Impossibili a riconoscersi, anche dagli stessi loro colleghi, questi uomini dello Stato menano come i drughi di “Arancia Meccanica” ed umiliano con crudeltà e compiacimento fin troppo gratuiti. Il canto di dolore di “Diaz” è anche per loro, perché coscienza e umanità della divisa quella notte perirono sotto l’istinto e la perversione della violenza, che seduce invece di essere combattuta. Alla fine della visione, oltre la rabbia e l’impotenza (perché chi dovrebbe pagare non ha mai pagato né, probabilmente, pagherà) resta spazio perfino per la commozione (ben sintetizzata nel sorriso pesto della bravissima Jennifer Ulrich) e per il raccoglimento. Perché in realtà il sangue della vergogna non ne deve chiamarne altro ma solo reclamare di diritto il suo posto nella memoria collettiva. Perché non perisca sotto le coscienze anestetizzate dalla tv. E perché non diventi l’ennesimo fantasma privo di pace e giustizia. Per tutto questo… Don’t Clean Up This Blood!