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Dido. E Venere tutta intera si avvinghia alla sua preda
Luce soffusa. Un pannello, in alto, sistemato al centro della sala Majakovskij di Lenz Teatro propone al pubblico immagini di corpi nudi, raggomitolati, indifesi. Una donna (Valentina Barbarini), nuda e dipinta di un nero volutamente disomogeneo come se fosse una superficie sporca, posizionata nell’angolo inferiore destro dello spazio scenico, comincia a spingere un copertone. Poi lo lascia, seguendo con lo sguardo il suo moto lineare. Lo rincorre. Nello spostamento calpesta le proiezioni che, sul pavimento della sala, compongono una croce greca. È Dido – nome della protagonista e titolo del secondo spettacolo che Lenz Rifrazioni propone al pubblico della quindicesima edizione di Natura Dèi Teatri. Si tratta di una presenza ancestrale, dalle movenze animalesche e selvagge. È archetipo della donna africana. «Chi sei tu straniero che mi guardi così?».
Un uomo entra da destra. Il suo volto è dipinto di bianco. È basso, panciuto, pelato. È Enea (Giuseppe Barigazzi), futuro fondatore di Roma, che subito ingaggia con la regina fenicia una lotta ambigua, fatta di abbracci e spinte. Fino a quando comincia a penetrarla con la sua testa calva. Intanto sullo schermo scorrono immagini d’epoca. Un bianco e nero che narra di porti, di conquista. Le note di Faccetta nera risuonano, disturbate, dagli altoparlanti sottolineando il passo dell’oca con saluto fascista che Didone ora ostenta girando in tondo sulla scena. Questa figura esile e potente è figura dell’Africa, continente ormai violato, conquistato dalla follia. «Fu disgraziato quel giorno in cui la pioggia celeste/ a un improvviso scroscio d’acqua/ sotto una caverna ci ha sospinto».
I due ora sono nudi. I loro corpi si incontrano, avviluppati e sospinti dalle note di Franz Schubert (Andante con moto dal Trio in mi bemolle maggiore n. 2 op. 100, D 929). Didone, come nell’Eneide virgiliana, accoglie, ospita e ama Enea, colui che sarà fondatore del nuovo impero romano. Immagini di monete raffiguranti i Cesari vengono proiettate sullo spazio scenico e sul pannello centrale. I due si rivestono. Lei esce. «Mein Gott, quante donne ha da contare uno/ per solfeggiare tutta la scala dell’amore?/ Basta una e la nota è già piena».
Enea, rimasto solo, volge le spalle al pubblico. Subito assume una posizione fiera: petto in fuori, mani sui fianchi. Dalle casse risuona l’eco del discorso di proclamazione dell’Impero che Benito Mussolini fece, dal balcone di Piazza Venezia, il 9 maggio 1936. «I territori e le genti che appartenevano all'impero di Etiopia sono posti sotto la sovranità piena e intera del Regno d'Italia». Enea è Benito Mussolini. Nell’udire le sue stesse parole il condottiero si ripiega su di sé, tenendosi il ventre con le mani. Ancora, si flette sulle gambe impugnando i suoi stessi genitali. Sul volto quello che inizialmente si era presentato come un ghigno di dolore ora si tramuta in una sequenza di smorfie, dalle quali inizia ad uscire come una voce d’oltretomba che intona i versi danteschi del Canto V dell’Inferno. «Intesi ch’a così fatto tormento/ enno dannati i peccator carnali,/ che la ragion sottomettono al talento».
Ma il vero inferno è ora tutto per Didone, sedotta e abbandonata. Enea/Mussolini, che nel frattempo si è disegnato capelli neri sulla testa, ha infatti deciso di lasciarla. Cori tragici di voci bianche si trasformano nelle note di Giovinezza. Sullo schermo scorrono le immagini dell’odierna Cartagine, città fondata dall’eroina tragica che, secondo il mito, era stata definita e circoscritta da pelle animale, sottile e vulnerabile. Vulnerabile proprio come un corpo amato e ripudiato. «Che colpa mi dai oltre ad averti amato?/ Se ti vergogni di chiamarmi moglie, non sposa ma tua ospite io sia;/ Dido accetterà proprio qualsiasi cosa pur d’essere tua».
Didone si scioglie in un grido di dolore. Solo il fuoco potrà porre fine alle sue sofferenze. Ora fiamme di lego circondano il suo corpo. «Io sola sarò l’assassina di me stessa;/ no, non lo sarò; sì, invece, e adesso». Di lego sono anche le onde del Mediterraneo, il mare che Enea sta attraversando per portare a compimento ciò che il fato gli ha riservato. Non tornerà. «E se facessi affondare le sue navi? Si arrabbierebbe!/ Meglio la sua rabbia che morire di dolore».
Immagini di orme sulla sabbia sottolineano i momenti dello sbarco dell’eroe virgiliano, mentre Didone, aiutata da una maschera, si trasforma in giovenca. Dall’alto scende un bue, nero, imponente. Dapprima lei tende le mani verso di lui. Poi, quando si fa più vicino, lo accarezza. Ancora, lotta con lui afferrandolo per le corna. Infine sale sulla sua groppa, mentre tutt’intorno vengono proiettate le immagini degli ossari di Cartagine e Cartagena. «Al camposanto voglio dormire,/ come un bimbo che nella sua culla si fa cullare».
> Spettacolo visto martedì 9 novembre alle 22.30 presso la sala Majakovskij di Lenz Teatro
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