Dieci anni fa lo intitolavo “Cronache da un mondo diverso”

Da Chiagia

Andrea
La porta si apre in un modo che non dovrebbe, di scatto, mentre siamo impegnati in un colloquio. La voce di Andrea risuona come non dovrebbe, in un tono stridulo, troppo alto. Qualcosa scricchiola in quel secondo in cui mi aspetto di sentire qualche stronzata sul Genoa, qualcosa che mi riporterebbe a posto quell’ingresso in tempi sbagliati, qualcosa che non arriva, dai dimmi le ultime su Scoglio, e invece sento parole diverse scorrere dalla sua bocca alla mia testa.
New York. Pentagono. Bombardati. Aerei.
Non ci siamo, decisamente. Ripeto due o tre volte ad alta voce che non ci credo, ma mi ha telefonato mia moglie, dice lui, non ci credo, ma intanto le mie dita corrono frenetiche sulla tastiera del computer, a digitare indirizzi internet che non rispondono, e ad ogni rapporto di mancata connessione le mie mani si raffreddano sempre di più e si aggrappano alla tastiera come a un salvagente di piombo.
Poi un portale si sblocca e vedo scorrere notizie incredibili, si aggiungono altre frasi sconnesse e sempre meno accettabili. La prima torre è crollata. Anche la seconda. Ci sono bombe ovunque. Ci sono aerei scomparsi dai radar.
I colleghi cominciano a passare nei corridoi, ci si chiama da un ufficio all’altro, hai sentito?, i cellulari suonano, siamo pesci di un acquario incrinato che gocciola via.

Anticorpi
Chiamo Barbara due, tre volte, la quarta dal treno. Chiamo un paio di volte mio fratello. Non ci diciamo niente di particolare, solo ci scambiamo la voce e non è poco. Passano i primi minuti in cui lotti per annegare l’angoscia, digiti, leggi, parli, telefoni, ti muovi nervosamente tra le stanze.
Poi passa la prima mezzora e lo stupore slitta via via di lato per fare posto ad altre sensazioni che premono, la paura soprattutto, il corto circuito emozionale, pensi che lei è a Spezia, che vicino c’è l’Oto Melara, pensi che devi andare in stazione, sai che stai esagerando ma te ne fotti, non stai facendo un giochino di misura, siamo fuori da ogni regola.
Subito ti sembra un sogno, come quando da bambino sono arrivato da scuola e mi hanno detto che mia zia era all’ospedale per un incidente d’auto. Sì, uguale. Si dice spesso ‘sembra di sognare’ ma solo poche volte nella vita ti succede davvero, non è una metafora, è una speranza vera.
Poi i tuoi miracolosi anticorpi iniziano il loro lavoro, improbo più che mai: il loro mestiere è di farti accettare le cose peggiori, di evitare che tu impazzisca davanti all’accaduto e alla prospettiva. E’ successo, mettiti l’animo in pace.
Li vedo con la loro pittura bianca e la calce viva che mi verniciano il cervello, li sento ripetere che è normale, che ci sta, che può succedere, è normale, è normale, l’impossibile è normale…
E’ dura, durissima, stavolta, poi come sempre hanno la meglio, almeno per stavolta.
Accetto la realtà.

Impossibile
Le persone si riuniscono in questi casi, in gruppetti, con qualcuno che parla per non pensare e qualcuno che ascolta per zittire le voci che gli rimbombano nella testa, tutti a cercare calore, improvvisamente raggelati e non solo metaforicamente.
Diciamo stronzate, ridiamo in modo isterico, paventiamo ipotesi assurde, ripetiamo frasi scontate, manichini infreddoliti buttati sul palco di una recita a cui non sono preparati, accasciati sulla pedana con i fili allentati.
Poi vado alla stazione con il mio bagaglio di pensieri intonacati, e mi illudo di avere una pausa di normalità e invece mi ritrovo in un’altra non normalità, quella delle facce della gente che incrocio sul marciapiede, facce che ancora vibrano per la fucilata ricevuta.
Per un po’ penso che magari sono io che li vedo così ma i brandelli di parole che attraversano il mio campo acustico sono sempre gli stessi. Aereo. Incredibile.
Mio fratello sta vedendo la televisione quando lo chiamo, ha visto le torri cadere in diretta, ha la voce rotta. Mi dice una frase che mi illumina. E’ successo l’impossibile, dice.
E io capisco la differenza. Tante tragedie successe, viste in televisione o vissute da vicino, i terremoti, le bombe, le guerre, arrivavano fino ai confini dell’improbabile.
Una o due cose, l’esplosione dello Shuttle ad esempio, mi avevano colpito perché altamente improbabili.
Quello che è successo oggi alle tre va oltre. E’ impossibile. Era impossibile, mi correggono attenti i miei anticorpi spingendo avanti il mio limite di accettazione dove credevo che non potesse arrivare.
Era impossibile. E’ successo.

Fuori posto
C’è qualcosa che mi ha fatto peggio, immensamente peggio della tragedia.
Qualcosa che è venuto fuori nelle ore successive, prima piano piano, con sussurri vergognosi, poi nella mezza frase buttata lì da un barista, nell’articolo di un giornalista, e infine urlato in faccia senza pudore.
E’ l’ennesima riprova della stupidità dell’uomo, l’ennesima (ma quanto è grande questo n?) delusione che nemmeno i miei anticorpi, già provati, riescono a farmi superare.
Vorrei essere un computer e applicare all’accaduto un algoritmo prefissato, una reazione prevedibile. Oppure una bestia feroce sfogando la mia aggressività istintiva contro uno stimolo tanto grande.
Invece – e un po’ me ne vergogno – appartengo a una razza che di fronte a una cosa tanto atroce sa proporre soluzioni, belle soluzioni pronte, magari di direzione apparentemente opposta secondo la tendenza politica di ciascuno, ma sorprendentemente vicine nell’inumanità.
E io non accetto chi sfoga la sua rabbia in desiderio di vendetta (cieca o vedente importante), chi è pronto alla caccia al diverso, chi cerca violenza solo per chiudere conti pregressi, chi risponde all’odio con l’odio, ben conscio delle conseguenze.
Ma non accetto neppure (e mi fa un po’ più male) il sarcasmo, la soddisfazione malcelata, il senso di rivincita di tutti coloro che pensano che se la sono voluta, che chi si credono di essere, che ora sanno cosa si prova, che ora hanno capito che non sono invincibili.
Mi chiedo cosa c’entrasse con l’arroganza imperialista l’impiegato di vent’anni che si è preso un jet sulla schiena mentre scriveva un’e-mail. Che colpa avesse nell’embargo ai bambini iracheni la bambina americana diventata kamikaze involontario. Come si possano imputare al pompiere che è morto salendo le scale le colpe di Bush padre e figlio.
Odiare gli americani oggi è sbagliato, significa giustificare quegli assassini.
Dovremmo avere il pudore – l’ipocrisia – di tenerci dentro per qualche giorno frasi come “bisogna capire perché arrivano a tanto”. Vi prego, almeno per un po’ di giorni, almeno finchè non sono state sgombrate le macerie, almeno finchè una madre non capisce se la figlia che non ha ancora chiamato esiste ancora, risparmiatemi le lezioncine. Speravo.
Tanto lo sapete che tante cose sono cambiate, che il mondo è diverso da ieri l’altro, ma una cosa non è cambiata: il potere, il denaro, l’intolleranza rimarranno i suoi volani. Il disequilibrio è e sarà la regola, la giustizia è e sarà un’utopia.
Non accetto un sacco di cose da un po’ di tempo, faccio fatica a collocarmi, sono sempre fuori posto. Mi illudo di avere buonsenso e invece probabilmente sono io a non capire che questo tempo, questa umanità, non consentono vie di mezzo.
O di qua o di là.
E io invece non mi schiodo dal mezzo, prendo fiato e tiro avanti.
E chiedo ai miei anticorpi superstiti un lavoro extra per affrontare il tempo che verrà.

(Scritto il 14 settembre 2001)



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