Vengono su bene diecianni e i geni.
Li riguardo in falciate d’ossa
compiuti zaini e quaderni con alieni
che avrei dovuto conservare
in galloni di ricordi e giorni e lune
idealizzate sopra gli alberi di quasi natale
disegnati, i cerchi chiusi
le tate che li indicavano
così bravo, così bravo.
Ma ce n’è voluto per chiamarti
figlio e mio ossigeno ed io tua elettrogena madre
smagrire i nomi che ti ho dato,
lasciarti abitare fuori di me
riparare il cordone che m’ha fatto forma e lingua,
ero un monastero
tra i tuoi piedini nudi
che lo percorrevano freatici
assidui dieci anni di bianco e nero
nuziale transizione del participio
dell’essere e dell’averti, l’avere
rimettendoti al mondo
un’antologia di vita che m’annienta
nei caratteri e negli incroci
di quegli occhi, volpi e antichi
ostri che viaggiano nei fiumi e nei disordini
m’invadono
e gloriosamente m’assomigliano.