Scarnificare la vita alla ricerca del vero: L’osso, l’anima
Con L’osso, l’anima incomincia quella fase di piena maturità della poesia di Bartolo Cattafi che si concluderà solo con la precoce morte. La spinta analogica dei versi diviene talmente complessa da sfociare in una sorta di “astrattismo espressionistico” del tutto sui generis, fatto di ingranaggi inusuali, di accostamenti capaci di una forte folgorazione, di metafore dagli addendi talvolta stranianti, ma limpidi poi negli effetti. Ne risulta una poesia rarefatta ma, allo stesso tempo, concretissima, che scandaglia gli eventi in maniera scrupolosa, come un microscopio farebbe con freddi campioni biologici: la mente è sempre protesa a sondare il nucleo nascosto delle cose, ricercando quel ‘nodulo’ che le rende maligne, inconoscibili, allo scopo di comprenderne non solo le fattezze esteriori ma anche i cancerosi meccanismi interni, che celano la verità a chi le osserva.
D’altronde, come scrive Giovanni Raboni,
[…] non c’è, in Cattafi, trascrizione fedele del dato naturale o empirico che non sia scompaginata, ghiacciata, resa «mostruosa» e traslucida dal soffio dell’astrazione e del mito né, d’altra parte, figurazione così assoluta e puramente mentale da non occupare sulla pagina (e nell’onda di rifrazioni che questa suscita) tutto lo spazio che compete agli oggetti reali.
Ebbe inizio nell’ombra, in un angolo lontano
dai luoghi normalmente frequentati.
Quando la spora attesa, il virus remigando giunse
alla terra promessa, in qualche
approdo del cuore per mettervi le tende.
[…] Si richiese l’aiuto di amuleti,
di formule inutili, d’auguri
finché l’opera pervenne a compimento.
Indi ebbe inizio una nuova attesa.
In questo Inizio la ricerca del vero appare come un’operazione farraginosa, e il poeta ne è consapevole a tal punto da predicare, in alcuni versi, La pazienza generata dalla dolorosa esperienza quotidiana. Non bastano le buone intenzioni per venire a capo della vita, che dispensa ogni giorno la propria dose di ‘sofferenza’.
Dovemmo fare cataloghi
dividere le cose
metterle nel calibro…
[…] I conti non tornavano, le cose
sovente cambiavano colore,
consistenza, sapore, dimensione.
A occhio allora scegliemmo,
a fiuto, fidando dell’istinto.
I risultati non furono migliori.
In ogni caso ci volle sofferenza
la pazienza che logora la polpa
perché l’osso risplenda.
Talvolta però subentra l’ansia di una conoscenza “a qualunque costo”, e allora questi buoni propositi vengono accantonati; il poeta allora aggredisce l’ignoto in cerca di una risposta immediata ed esaustiva. Rileggendo qui Metodologia viene immediato pensare al clima lombardo della cosiddetta “Quarta generazione” di cui faceva parte anche Nelo Risi.
Inutile farla lunga,
girarla, rigirarla
allo spiedo, al rovello
dell’attenta osservazione,
l’analisi, la sintesi, C’è gente che ci passa la vita
i discorsi sul metodo. che smania di ferire:
Si muore dalla noia. dov’è il tallone gridano dov’è il tallone,
C’è un modo d’aggredire la questione: quasi con metodo
col coltello. solidi applicati caparbi.
Cattafi si inserisce in questo ristretto milieu poetico in maniera garbata, svettando poi per consistenza etica e risultati espressivi sugli stessi esponenti milanesi.
In queste poesie scompare progressivamente il ricorso al descrittivismo, lasciando campo aperto ad un procedimento di intellettualizzazione che si focalizza piuttosto sul substrato di ogni ‘particola’ affinché, mostrandone il funzionamento interno, si possa dar conto del fenomeno esteriore. Questo è davvero un passo decisivo per la poetica non solo di questa raccolta ma dell’intera produzione cattafiana. Scemata la consistenza dell’oggetto, se ne perdono solo le qualità fisiche; la poesia ne guadagna in spirito sintetico ma anche in termini di oscurità dei significati. Questo non è necessariamente un difetto, essendo il sintomo della grande potenza iconica che si intende affidare alle cose; esse ora lievitano al grado di emblemi, di puri significanti che trascendono la realtà, motivandola. Non ci troviamo dunque al cospetto di un banale scetticismo ma, come fa capire Paolo Maccari, di fronte ad un «radicalismo esistenziale e intellettuale che, frustrato e rientrato, si traduce in sgomento» (Da qui non puoi).
Da qui non puoi vederlo
devi ancora salire
o scendere gradini:
rotola perduto,
spinto da qualche vento sulla sabbia
sull’acqua trascorsa
della tua clessidra.
Intanto ami, abbracci, ignori
perché di là dal morbido, dal tenero, dal caldo
avverti un’ambigua rigidezza.
Non sai ch’è morto e ignori
l’anima aguzza, d’acciaio,
che ti scruta e attende
il come il quando il dove.
Se un’inclinazione al narrato esiste (come accade in Un 30 agosto), di certo è ancillare rispetto alla scintilla negativa che fa scattare la combustione dei sentimenti, con una cornice quasi sempre antitetica alla cieca mostruosità dell’evento.
Si vide subito che si metteva bene:
eventi macroscopici nessuno,
il sole ad un passo da settembre
diede la prima razione
alle isole di fronte,
il mare mandò lampi di freschezza,
il caldo soltanto fra tre ore,
un immenso celeste, ancora un giorno
per l’uva e gli altri frutti di stagione,
tra i pochi rumori di paese
l’ossigeno sibilando disse
di non farcela più con quel suo cuore.
Di primo mattino la morte di mia madre.
Mai conciliato col proprio lato spirituale, anzi sovrastato da un istinto sempre in lotta col ‘peccato’, Cattafi risente di un pesante senso di colpa che, indomabile e ferino, gli grava addosso (ci riferiamo senz’altro ai versi de La bestia):
E come fai a sapere a prevedere
che se affondi il braccio
in un’acqua di pretto celeste
scatta su dal nulla
con tumulto di bolle l’immonda
bestia che ti azzanna
e per sempre ti avvince il braccio.
Dolcemente golosa del tuo sangue
dovrai nutrirla nasconderla coprirla
con la manica della giacca.
Cedute per un attimo le spesse barriere del pensiero critico, il poeta ritorna fragile creatura che si affida – inerme – nelle mani dell’entità divina (Oggi).
Oggi ignorando tutto
di questo giorno,
se d’Avvento o Passione,
ignorando i colori, le pianete,
m’inginocchio nella tua casa
sotto la tenda che portiamo ovunque
per aprirla per chiuderla a tua offesa,
aprirla ancora, nei boschi
in fuga, su secche, su frangenti,
dal capolinea a un punto della corsa.
Non frugarmi, non chiedere.
Tu sai il perché d’un labbro
che tremando si sporge più dell’altro.
Accoglimi.
Assieme ai pesci guizzanti all’ingrasso
nell’acqua del Giordano
nella tua conca di marmo,
ai due cani
ringhiosi clandestini
che baruffano nell’angolo più buio
della tua navata.
L’io poetico dunque brancola nel buio, talvolta è finanche perseguitato dagli eventi; c’è uno stato di cose che sembra ‘congiurare’ a suo danno. Nel frattempo la sensazione di leggerezza, data dallo schiudersi di un barlume di verità, si rende via via meno percettibile, relegando il poeta in un limbo da cui è pressoché impossibile evadere. Cattafi talvolta ci appare quasi vittima di sé stesso, sperso com’è «nei tetri labirinti della materia»; in Come vanno le cose, tenta allora di riaprire la valvola di questo pensiero critico, nella speranza che ciò gli giovi.
Ti spiattello in faccia
come vanno le cose:
vanno male.
Benché abbia perso lo spirito e la lettera
della fede in quella
sfera che tu conosci,
sono ancora inquieto.
Non mi tornano i conti, le misure, il modo
che ha il mondo di girare.
Ti faccio l’esempio dei consunti
oggetti: i caldi i cogniti
compagni delle nostre stanze
con qualcuno congiurano a mio danno,
mutano volto,
stranieri appena giunti a questa soglia,
allusivi e furbi…
[…] E la foglia caduta
che un giorno colsi col piede e feci mia
s’è staccata,
mi svolazza intorno mi rinfaccia
un corpo pesante
il passo del mio piede.
In tal modo tutta la poetica sottesa a L’osso, l’anima si risolve
[…] in una sorta di astrazione oggettuale simbolica e metafisica, che presuppone l’estenuante lavorìo di composizione, scomposizione e ricomposizione, mediante la scrittura poetica, di un reale deflagrato, per ricavarne, estraendola dai vortici di un mondo ridotto in disordinati frantumi, una scheggia di verità sul senso del grumo di atti e attimi errabondi – l’effimero destino di cometa – in cui si coagula l’avventura esistenziale dell’uomo nella realtà e nella storia.
Avanti, sputa l’osso:
pulito, lucente, levigato,
senza frange di polpa,
l’immagine del vero,
ammettendo che in questo
unico osso avulso dal contesto
allignino chiariti, concentrati,
quesiti fin troppo capitali.
Credo che tu non possa
farcela; saresti
cenere nella fossa,
anima da qualche parte.
Ma sondare dentro il “vero”, alla fine, diventa un atto impossibile alle capacità umane; non solo: affannarsi a trovare la soluzione assoluta è un’operazione effimera, inservibile se poi la verità è sganciata dal contesto delle cose o pretenda di esaurire il reale. Non per questo Cattafi intende rinunciare, anche se un silenzio poetico, durato ben sette anni, lascia intendere che una resa, seppur parziale e provvisoria, è stata avvertita come necessaria, quantomeno per riordinare le idee in vista di una nuova battaglia contro l’inconoscibilità del mondo.
Nella seconda parte del volume Cattafi si fa più introspettivo, quasi a voler allentare la pressione esercitata da questa estenuante ricerca con un idillio, mai però troppo sereno, fatto di suggestioni isolane, di anfratti paesaggistici, seppure tesi a riaffermare il proprio disagio interiore (si vedano a tal proposito le due poesie messe a confronto poco più avanti). Il poeta si avvicina così, a grandi passi, verso quella fase della sua produzione lirica che è stata valutata da molti critici come un ritorno al pittorismo quasi animistico delle prime prove, ovvero L’aria secca del fuoco (non è un caso che, in questa pausa dall’esercizio poetico, Cattafi intraprenda un’altra attività artistica, quale è la pittura, molto affine nello spirito ai motivi conduttori sia di queste ultime sezioni dell’Osso, sia della raccolta appena chiamata in causa).
Dovrei ora parlarvi dell’estate Non a caso qui cresce
in questo posto la palma africana
vetrocemento che sul collo porta
asfalto acciaio una vecchia criniera
ma l’agosto ha frescure insospettate di vecchia bestia tigliosa.
luce di mare E qui le bestie fameliche s’aggirano
tende verdi drizzate sulla costa sono nell’aria,
qualche uccello sul molo negli angoli.
(benché di molto qui si sia addentro Una fame perenne ed un viluppo
nella terra di membra infocate sulla sabbia
e voi direte che pazze fantasie). breve sollievo
Finito ch’ebbe il fuoco di smussarsi attinto alla gola delle prede.
persi i troppi spigoli taglienti Le stesse donne
riconobbi la vera compagnia saggiamente s’adeguano
ogni cosa che onoro è appesa al muro all’ambiente termico
non più in giro hanno abitudini eccessive
mescolata all’altro. portano un peso di belle forme
Così si cambia genere di vita cibo e fonte indicibile di fame.
si ricorda l’estate nell’inverno Queste sono le regole e le leggi
in una cella spersa nella terra che tu stesso abbracci:
messinscena col mare sappi che da gran tempo
con la memoria. anche tu carnefice
sbatti sul muso dei mostri la tua pelle.
In questo raffronto tra Lettera dall’entroterra e La palma africana emerge un Cattafi molto descrittivo, che imposta il dettato poetico su reiterati ammiccamenti al lettore, per coinvolgerlo in una reverîe quasi infantile, che gioca con la ‘memoria’ – Anabasi – dei luoghi natî.
[…] La mente non capisce questo amore
per certi posti remoti dell’interno,
insidiosi, inospiti,
di barbara bellezza.
Siamo talmente distanti adesso da quella tensione conoscitiva che il poeta si regala persino una deviazione all’interno della sua sfera privata, con un intermezzo erotico poco affine al fil rouge della raccolta. Alcune di queste risonanze, come in Fretta, attraverseranno gli anni per diventare modello di un’estenuata vena amorosa nella poesia del conterraneo, e parimenti milanese d’adozione, Basilio Reale.
Mi domando se sia molto male
che tu mi dica fa’ presto
che non voglia
al di là delle porte della pura
e semplice superficie,
nel profondo,
impegnare la zona tesa all’alto Scelta una camera orientata a Nord,
la parte vaginale una mano dominatrice sulla spalla,
così prossima al cuore non rimane che chiudere la porta.
alla tua anima. Tirate su le coperte, date il meglio
Da dieci a venti minuti di voi, controllando il passaggio
per giungere al bollore. dell’aria nella laringe.
Cattafi è abile come pochi nel costruire versi colla perizia derivata dall’uso finissimo dell’allitterazione, dei sintagmi paronomastici, delle rime al mezzo, strumenti questi sistemati come mattoni che si incastrano alla perfezione, a cui si aggiunge la malta di un pensiero illuminato e illuminante, ma tarlato dall’angoscia esistenziale (La notizia).
[…] Tutto apparve concorde con un giro
centripeto di vortice
un senso precipite d’abisso.
Ne vien fuori una poesia di impeccabile compiutezza fonica e – soprattutto – mentale, sempre intenta a smascherare ogni minima aberrazione con vivido spirito metaforizzante e, dunque, maggiormente efficace poiché sprigiona, grazie a questa potenza simbolica, la massima carica esplicativa.
Senza dubbio Sagoma è un esempio limpido di questa maniera “emblematizzante” di cogliere la sostanza delle cose.
Non me la sono mai passata liscia
vengo da tanti posti
dove sono rimasto
con le dita schiacciate
senza alcuna iattanza ora vi dico
che sono qua
in piena luce
immobile
spalle ad un muro di questa stanza
colore della sagoma preciso
allenato tranquillo
attendo con pazienza
ma ignoro
cosa per voi sia meglio
cuore piedi viso
colpire il centro
una zona di mezzo
pelle di striscio
estrema periferia.
Bartolo Cattafi è poeta mai pago di esporsi, di farsi egli stesso “bersaglio”, di prestare il fianco alle continue frecciate che giungono dal complesso e, talvolta, malevolo ‘arco’ della vita quotidiana eppure, come abbiamo avuto modo di vedere, riesce sempre a contrattaccare grazie ad un’indole critica di rara lucidità caustica.