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Diego Conticello: inediti

Da Narcyso

Diego Conticello: ineditiQuesti versi di Diego Conticello sembrano inerpicarsi tra radici e trame, ruggine e polline, un andare a capo per stringente necessità di forma, per onorare – o incriminare – il teatrino barocco della vita.
L’ interesse è dunque tutto rivolto a un sostrato isolano assolutamente riconoscibile, penso alla Jolanda Insana di “Sciarra amara”, alla prosa di “Retablo” di Consolo, al barocco mentale di Lucio Piccolo – autore lungamente studiato da Conticello – al lascito della poesia amorosa di area ispanica… e non per ultimo alle alchimie poetiche e materiche del Bonaviri di “Dolcissimo”, in cui biologie animali e vegetali si coniugano fino alla creazione di ibridi, di nuove parole e sensi per il mondo; chè il barocco, in sicilia, è fenomeno ancestrale imparentato con l’incrocio di geníe e culture, perfino con una forma del bizantinismo, giunta alla modernità attraverso Pirandello e il termine barocco solo in parte puó definire questa complessità.
Alta è dunque in questi versi la tendenza al neologismo – che in sè vuol dire sempre tensione, e un certo grado di turbamento esistenziale, anche quando la ricerca di forme si tramuta in puro gioco formale, in riso carnascialesco – e pure in questa forma, tuttavia, la poesia siciliana ha saputo dare esempi di sconcerto, di riflessione dell’umana condizione…
Consonanze o suggestioni dunque? Consonanze, sicuramente, a giudicare dai numi tutelari evocati, e dagli esiti del testo piú riuscito di questi inediti – non a caso scritto in dialetto – in cui suono e senso vengono a incontrarsi nel difficile compito della parola a darsi forma, nella ricerca della resa di una definizione finale, raggiungibile solo dopo che si é attraversato il guazzo, lo spunto, il caleidoscopio sfuggente, le infinite trame e le trappole dello scrivere.
Pur proclamando il dominio del vuoto e la consistenza umbratile di ogni materia, malgrado lo splendore nella luce delle forme deprecabili e deperibili, Conticello mi sembra non voglia rinunciare alla forza dirompente – e proprio per questo anche pericolosa – della parola, alla quale, non per ultima, è affidato l’ingrato compito di definire amore: a/mor, (amore e morte), a/morale:
“una dama di luce/( sin tu cuerpo yo soy nada )/tempo eterno, che sei/tutto interno//sconvolgi morte/nere fantàsime//per risorgere/nella trasparenza/di un fiore.”

Sebastiano Aglieco

***

Allargare il salvabile

Sorge
col tepore
meridiano
quest’aria
odorata
di stallatico,

trema
i fogliami inermi,
sventra pagliericci,
soppesa
increspature
al torrentello,

poi si fa sottile,
culla i nervi
dell’ortica,

l’erbe lega a fili
di memorie
in freschi
svanenti abbandoni.

*

Amarsi

Bujo non filtra
nelle carni
nudamanti.

Labbra su lembi
e fiati
di tempra stretta,

una palpebra
quasi s’apre
a risvegliarne
l’estro,

poi un rigagnolo
che sente l’ansia:

vite unisone

*

La striscia, la spinta

Che la noce scintillata
del vero
sia nel distante irraggio
o nel farsi trovare
impreciso
di minimi corpuscoli
- polveri diresti -
non è dato sapere.

Importa
la striscia lasciata,
ràdica vortice ignezione,
la spinta volenterosa
dell’aria

in cerca d’uscita.

*

Tempo di sabbia

a Vincenzo Consolo

Un piovastro
soffiato
in sabbia

frantuma

con bronzo di vento
verdicchio
vetro d’onde

- ancora
s’aprono
i monti vicini,

(è malsicuro
anche il secondo)

in questo
semilago
annidato
del cuore,

che tutto
confonde
eccetto il passato.

*

Tra veglia e sopore

Se tra veglia
e sopore
nella danza
penumbratile
delle tue oscurità
si sciolgono
crude inchiarazioni

non temere,
è solo lucore
presto dissolto,

vivo
scatto,
fumo bianco
scavato
nel nero di noi,

spentosi
a un battere
d’occhi.

*

Lastre di pianto

Ondeggiano lastre
dello stretto
su un fondo mobile
di perenne
pianto,
come una macabra
giostra
sul nero
fondale delle cose.

Oramai abbiamo scavato
ma non si trova
il perno,
vi s’inceppa melma
sfrangiata
da queste correnti aberrate
che inghiottono
lo scanto

del varco

e ci abbuiano
gli occhi.

*

All’evidenza dei vinti

E lasciamolo perdere Mameli
il nostro inno lo suona il marranzano
isolana lamina percossa
da un inutile fiato di dolore.

(Bartolo Cattafi)

Inutile abbarricarsi
alla Storia,
rimostrare le carte
la briscola – a denari -
già scoperta…
scarsi ‘sti tri punti,
malipigghiati.

Al porto delle vite
puttarunu
motti di liber-azione,

manciaru cu ciauru
pisci stoccu e sticchiu,
staccu di capa
a ccu nun ci piacia.

N’arresta l’ultima risposta,
ridesti, lesto senza fanti
arripigghiarini,
dimostrare
per una volta
d’essere il vero nord-afroso

(industriarsi o perire)

senza cadere
in tentate azioni,
non farci i ponti oltre
lo stretto (indispensabile).

Guarda, Talìa la fece
chi tenne fertile la Terrona,
facendo le feci,
la feccia (tenaci tenenti
all’evidenza dei vinti
bisògnino dieci dì,
rossotinte
le mass(ahi)e
Brontolavano),
chi la terrà
o tenette le redini
a queste mari/o/nette
staccò l’arti
d’un assurdo teatrino…

nell’isola ch’ora cola
a pisci
sperando arrivi la nettezza
umana,

ca l’erba tinta
- purtroppo -
qui campa assai.

*

Matita

Ogni tanto
imprendo a fumarmi
la matita,

carbonato incanceroso,
graffio di grafite,
sferzante
verde senz’erba
(che non manda in fumo
il cervello)

chiodo per puntare
l’attimo che preme,

cancellabilità,
mina del mondo.

*

Non credo alla misura
e all’abbocco finale che fa
vivo
il succo del mondo.

Sento nel colore
musicato,
in un suono
ingiallito

il volatile
essente delle cose.

*

Eterno/Interno

È giunto un vento
di falangi sommerse
ad incrinare
le vetrate altere
della notte

e le gocce
della mente
barcollano
d’un abisso
dal tempo tutto umano,

una dama di luce
( sin tu cuerpo yo soy nada )
tempo eterno, che sei
tutto interno

sconvolgi morte
nere fantàsime

per risorgere
nella trasparenza
di un fiore.

*

Genesi della chimica amorale
a Giulia

Voglio frustare
quadrighe di
endorfine
sui sentieri
porporini
del tuo sangue,

estorcere stormi
di sinapsi
alla consunzione
dei giorni,

esigere da questa lorda
sopravvivenza
che coincida
almeno con
la felicità.

*

Lì sola

Gallerie boschive
ramaglie infrante
laminazioni d’acque
trappola siete state,
cappio di bastarda
seduzione
che abbranca
alle caviglie.

Se da questo perverso
deserto vi risuono
non m’ascoltate,

perché ogni minuto
tento di mutare la vostr’
amorte in invidiosa
vita.

Stattene lì sola

solaio di polvere
e dolore, pietra
incantesimata
soglia della solitudine,
tabernacolo di tenebra
ebbra fragilità
di tutte le caduche paure.

*

‘A parola

a Nino De Vita

Cc ‘aiu
‘a manciasciumi
di ‘na zzicca,

‘na cosa
chi primintìu
nun si fa azzuffari

e su masarraddiu
‘a rrinesci a pigghiari
duopu tanti musiuoni
attiranta,

aluvuòti si lassa
accarizzari
e lestu quazittìa
n’autra vota.

Nun allenta mai,
t’attassa i vini
t’arriciucculìa, ‘nzunné s’ammuccia,

appuoi tonna alliffiànnusi (pari manza
ma ti sbanìa ‘a testa)
arrivòta, furrìa
e, a cunchiusiuoni, ti lassa ‘nzalanutu
comu un mmuccalapuni
quannu talìa
‘na fimmina
senza putilla strìnciri,
un labbru can un si fa vasàri.

*

Risveglio
a Manuel Micaletto

Nella solazione
di un risveglio
tutti i colori
dello “spettro di Huxley”
(senza peso
d’agglomeruli chimici):

un’assolutezza videale

rispolverare
l’esatta
consistenza dei pensieri,
la con-solazione
delle idee,

un bene incurabile.

*

Sacro vuoto

Anche su questi gracili
pendî l’uomo
ha imposto scuri
forzato i sigilli screziati
dell’acero
svenato
boscosi crinali
con chiavature d’orto.

Eppure cavallette iridescenti
aprono sterro al passo
puntinando basalti
sul ciglio smaltato
dal timore…

ognidove
abbasso
a vano
cilestre di conca lacustre,
rosato di seni montani
avvicinano ad un sacro

vuoto: è seduti

sull’orrido precipiziale
che meglio s’intuisce
la vitale necessità
del silenzio

o la sua
scandalosa
vigliaccheria.


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