Qualche giorno fa mi aggiravo tra gli scaffali dedicati al thriller in cerca di un nuovo libro da recensire. Scartando titoli di autori ben noti, ho pensato di soffermarmi su nomi meno conosciuti. Il mio sguardo è caduto su un libro nella sezione novità, meno di 300 pagine, dal nome interessante.
Il libro si chiama Tabù, di Casey Hill; la quarta di copertina mi ha subito convinta. Quello stesso giorno sono tornata a casa con un altro libro, anche quello dalla quarta interessante, che si è invece rivelato essere molto diverso da ciò che era stato promesso (e leggendo soltanto allora la biografia dell’autrice, premiata per libri paranormal romance, mi sono resa conto di aver commesso un grandissimo errore a non farlo prima di averlo comprato). È stato proprio questo incidente a spingermi a leggere non soltanto le sinossi ma anche le biografie degli autori.Casey Hill mi ha lasciato quasi di stucco. Immediatamente dopo il mio acquisto non avrei saputo dire se Casey fosse un nome da donna o da uomo, soprattutto considerata la diffusione del nome sia tra i maschi che tra le femmine in Irlanda ed Inghilterra. Ero pronta a leggere un libro senza nemmeno conoscere il genere dell’autore.
La piacevole sorpresa è stata scoprire che Casey Hill è lo pseudonimo adottato da una coppia di scrittori irlandesi, i coniugi Melissa e Kevin Hill.
Ho fatto alcune ricerche sul passato letterario dei due, si è trattata di mera curiosità. Ho trovato molte informazioni su Melissa Hill in quanto famosa scrittrice di romanzi femminili, tutti nella top 10 irlandese ed inglese, ma ben poco sul marito e co-autore.
Moltissimi autori utilizzano uno pseudonimo per le ragioni più disparate, non è una novità. Basti pensare a George Orwell (pseudonimo di Eric Arthur Blair), Richard Bachman (Stephen King), P.D. James e, recente scoperta, Robert Galbraith (nome utilizzato dalla celeberrima J.K. Rowling per la pubblicazione de “Il richiamo del cuculo”, ben lontano dalla saga di Harry Potter che tutti noi ben conosciamo).
Ma perché utilizzare uno pseudonimo?
Vorrei considerare un attimo il caso di Robert Galbraith. La Rowling ha dichiarato di aver creato un alter ego per separare quanto più possibile la propria persona dallo scrittore. A sorprendermi è stata la reazione dell’editore David Shelley, che ha detto del libro “non avrei mai immaginato che fosse stata una donna a scriverlo”.Quest’ultima sentenza inevitabilmente richiama alla mia mente personaggi come le sorelle Brontë e moltissime altre donne dell’epoca Vittoriana e successiva, costrette ad utilizzare nomi maschili per veder pubblicate le proprie opere. Ci sono state ovviamente donne come George Eliot (Mary Anne Evans) che scelsero di utilizzare uno pseudonimo più per un vezzo che per una reale necessità.
Erich Kästner, vissuto in epoca nazista, fu costretto ad utilizzare degli pseudonimi (Berthold Bürger, Melchior Kurtz and Robert Neuner) in quanto considerato dalle idee bolsceviche. Il suo è un caso estremo di come non utilizzare il proprio nome possa salvare la vita.
Negli anni ’60 il premio Edgar Wallace fu assegnato all’anonimo autore di Tod in St. Pauli, che poi si coprì essere l’autrice tedesca Irene Rodrian. La cosa, ovviamente, suscitò non poco scalpore.
C’è anche una triste verità dietro l’utilizzo nell’epoca moderna di uno pseudonimo ed è la quasi totale impossibilità per un autore di passare da un genere ad un altro senza rischiare d’essere preso poco sul serio. Se un autore di libri per ragazzi decide di cimentarsi nella stesura di un libro che si discosta completamente dal suddetto genere (caso Rowling a parte), siamo davvero sicuri che riuscirà a trovare l’appoggio del proprio editore.
Ci sono molti detti a riguardo, come squadra che vince non si cambia, e magari è proprio questo il problema. Quando si tratta di guadagno le scommesse sono sconsigliabili, non ha alcuna importanza se questo servirà unicamente a tarpare le ali di un autore e costringerlo a dedicarsi per il resto della propria vita a concentrarsi su un unico genere.
A meno che…
Christine Amberpit