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È un ritratto impietoso, questo che Steven Soderbergh fa del pianista americano più osannato ed eccentrico del secondo dopoguerra: se anche il geniale e convenzionalissimo Liberace (uno strepitoso Michael Douglas) non manca qua e là di ispirare una scostante tenerezza, lo sguardo esterno dei suoi amanti ce lo consegna soggetto alla vanità, nella sua più brutale miseria umana, in preda alla routine della sua noia. La ricerca degli amanti bellissimi e creduloni per farsi voler bene gli è più cara del sesso in sé, o forse è l'unica strategia per mettere il sesso al riparo dalle chiacchiere dei nemici in luoghi infamanti.
La fama è appunto il linguaggio che spiega il malessere dietro le quinte, dietro quei candelabri che accecano già senza essere accesi e la cui fiamma conta ben poco. La fama spiega ricchezza e il successo, spiega l'accondiscendenza almeno discutibile della sua corte, la felicità sempre a carissimo prezzo della sua carne, la prigione dorata dove chiude se stesso e il suo cicisbeo di turno. Fama e consenso davanti ai candelbri e dietro, dietro le quinte, dietro lo sfarzo irragionevole: fama e consenso di un'ostentazione reticente, in accordo con la pruderie di un'America puritana e perbenista.
Annidato in un lusso da incubo, da dissipare quasi con dispetto, Liberace divora i suoi uomini, Billy (Cheyenne Jackson), soprattutto Scott (un convincente Matt Damon), poi Cary (Boyd Holbrook) e chissà quanti altri, mentendo a tutti su se stesso. Divorato dalla sua età, corre a restaurarsi dal Dr. Jack Startz (Rob Lowe), cambiando i connotati dell'apparenza, perché tutto risplenda come risplende lui, Liberace. La sua vita non è neanche vuota, gli è aliena, è una vita qualunque, più sprecata che goduta: l'invidiabile tuffo nel vuoto, l'angosciante brama del piacere a tutti i costi, poiché il costo non conta.
Dietro i candelabri è un tuffo in un mondo remoto, sepolto forse in album archiviati di un'esistenza che si fatica a immaginare oggi. Il film di Steven Soderbergh - scritto da Richard LaGravenese - ha il respiro corto: è un po' ripetitivo e soffre insieme di una lungaggine eccessiva e di un montaggio a singhiozzo, così che si appesantisce lo spettatore senza alcun beneficio nel suo tentativo di disegnare un'era della cultura popolare americana o personaggi che hanno avuto un peso reale in questa storia. Dietro i candelabri, nonostante ottimi protagonisti, lascia l'amaro in bocca e tanta stanchezza da smaltire.
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